La forza dell’arte

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Un brandello di porta con la toppa. Un buco di una serratura da cui guardare o spiare. È così  che l’opera di Roxy in the box si presenta al pubblico. Ma è proprio questa (apparente) semplicità che cozza col contesto e col titolo stesso del lavoro. Perché l’opera era esposta nella mostra Achtung! Achtung! (svoltasi a Roma – Ex Gil, 13 -27 gennaio 2011 organizzata in occasione della ricorrenza della Giornata della Memoria) e il titolo è Olocausto.

Appositamente realizzata per quella mostra, l’installazione si completa solo con l’interazione del pubblico. “Quando la curatrice Micol Di Veroli –spiega l’artista– mi ha invitata a partecipare alla mostra, quello che immediatamente ho sentito è stato un pezzo di porta strappata, come un pezzo strappato dal cuore dell’umanità. Impossibile guardarlo in faccia, si può solo spiare attraverso il buco della serratura, perché questa visione diluita è il corrispettivo della memoria che si disgrega”. Facendo leva sull’innato istinto voyeuristico dell’uomo (istinto cui molti artisti hanno sollecitato e documentato, a mero titolo esemplificativo, Étant donnés: 1° la chute d’eau / 2° le gaz d’éclairage, 1946-1966, di Marcel Duchamp e Bruxelles, Belgio, 1932, di Henri Cartier-Bresson), solo guardando attraverso quel buco, infatti, il lavoro si rivela nella sua interezza.

Un video, della durata di circa otto minuti, sviluppa l’idea di Roxy in the box per quella circostanza. Per saggiare e misurare la traccia che quella pagina nera della storia dell’uomo ha lasciato, l’artista si è aggirata per le vie del centro della sua città natale, chiedendo ai passanti cos’era il cosiddetto Olocausto.

Dall’iniziale immagine, impressa nella memoria di molti, del binario che conduce direttamente al lager di Auschwitz, con l’intermezzo di filo spinato e di cantanti, tutti rigorosamente in bianco e nero, con una resa video che riproduce quell’immagine sgranata tipica dei Super 8, sfilano uomini, donne, giovani, che rispondono in modi del tutto inaspettati. Da chi si rifiuta, perché solo la parola gli suscita paura, a chi ripete in maniera martellante la parola “schnell, schnell, schnell” (in tedesco significa svelto, veloce) imitando con il movimento del corpo anche quella vena di follia che ha percorso gli uomini di quell’epoca di entrambe le parti, a chi sintetizza con il termine “quantità”. Sorprende anche che l’unica persona che ha fornito una definizione e un messaggio articolato pressoché identici al significato di Olocausto, è stato un migrante nordafricano.

Poi mi sono immaginata –continua l’artista– che gli ebrei pensavano a noi, a cosa noi avremmo detto di loro e che memoria avessimo conservato nel tempo anche se non vissuto la loro stessa esperienza”. È proprio in questo passaggio che è scattata la forza dell’arte. Dopo una simile considerazione, mi sono chiesta: “Ma effettivamente gli ebrei, durante la loro coatta permanenza nei lager, si sono posti la questione dei posteri?”. Siccome uno dei principali assunti dell’arte è proprio quella di porre delle domande, quest’opera l’ha perfettamente incarnato. Come un tarlo, ha continuato a ronzarmi nella mente con la stessa domanda: “Ma effettivamente gli ebrei, durante la loro coatta permanenza nei lager, si sono posti la questione dei posteri?”. E la forza dell’arte è porre delle domande e far sì che lo spettatore cerchi da sé le proprie risposte.

È stata questa forza farmi contattare il Centro di Cultura Ebraica di Roma, la sezione Progetto della Memoria per porre la stessa domanda. La responsabile del Progetto, Sandra Terracina, spiazzata anche lei da un simile quesito, si è presa del tempo per rispondere. Il modo più corretto, a suo avviso, è stato quello di mettermi in contatto con uno dei sopravvissuti del campo. Ho avuto così il dono di poter conoscere Piero Terracina che, all’epoca dei rastrellamenti romani, aveva appena quindici anni. Piero Terracina si è mostrato subito ben disposto a un incontro, per parlare insieme dei suoi ricordi. Calorosamente accolta nella sua casa a Monteverde, accomodata in un salotto carico di ricordi, ha ascoltato la mia domanda e, con chiarezza, ha semplicemente risposto: “Noi eravamo attaccati alla vita”.

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