Molti magazine d’arte contemporanea internazionali e non, hanno in queste ultime settimane lanciato un dialogo sull’allontanamento del pubblico da mostre ed affini. Questo proficuo dibattito è sorto spontaneamente in ogni parte del globo, segno evidente che la necessità di ritrovare ciò che si è perso per strada è quanto mai universale. Due grandi voci come Charles Saatchi e Jerry Saltz hanno inoltre raccolto il sentimento comune, convogliando alcune lamentele che sino ad ora erano comparse su alcune testate e rilanciate da alcuni critici.

Saatchi e Saltz si sono scagliati contro l’arte da avanspettacolo, contro la noia imperante e contro la trasformazione dei musei in anfiteatri dediti ad attività circensi per racimolare un sempre più vasto bacino di pubblico. Ed allora dove risiede il punto di equilibrio? Dove trovare la giusta via di mezzo capace di rappresentare il giusto connubio tra sperimentazione e fascino? Saltz ha inesorabilmente stroncato il “parco dei divertimenti” architettato da Carsten Höller per il New Museum e la mega retrospettiva di Maurizio Cattelan al Guggenheim (ambedue a New York) ma è inutile negare che entrambi gli eventi hanno sbancato al botteghino, consegnando alle due istituzione il record di ingressi. Parliamo però di star del contemporaneo, nomi che non possono di certo fallire quando vengono chiamati ad esporre nei luoghi più prestigiosi del mondo. La vera sfida è riportare il pubblico all’interno dei musei delle nostre città, puntando su eventi a basso costo che non rappresentino un ostacolo formale e concettuale insormontabile per i visitatori. In primo luogo bisognerebbe evitare programmazioni pretestuose o peggio ancora ripetitive. Ad esempio una mostra commemorativa sul Futurismo, una sui 150 anni dall’Unità d’Italia ed una sull’Arte Povera possono anche andar bene, ma quando la programmazione annuale di tutte le istituzioni presenti sul nostro territorio si basa su 20 mostre tutte incentrate sulla stessa tematica è chiaro che qualcosa non funziona in maniera propriamente corretta.

Anche i talks sono salutari ma non è sempre possibile parlare della pratica curatoriale relegando in un angolo l’artista e la sua opera. In secondo luogo bisognerebbe educare i curatori a non seguire in maniera pedissequa le scelte degli altri od in genere quelle imposte dal sistema. Studio visits e proposte che piacciono in primis a chi organizza la mostra sono una ricetta utile per non sprofondare in un mare di noia. In fondo si tratta solo di seguire piccoli accorgimenti ma il nostro sistema, poco incline ai cambiamenti e puntualmente a ricasco delle visioni internazionali, sembra destinato ad ignorarli.

 Micol Di Veroli

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