La fine della cultura, as we know it

di Redazione Commenta


Con la cultura non si mangia, un adagio che in questi ultimi tempi abbiamo udito sin troppo spesso, tanto da cominciare a crederci veramente. Il lento procedere verso il basso della cultura nostrana è divenuto un vero e proprio capitombolo all’interno di un pozzo senza fondo. Eppure la crisi non è l’unica causa di questo progressivo declino. La colpa è di natura istituzionale. I nostri governi, assieme alle major private hanno pensato solamente ai loro interessi e profitti, non hanno saputo accendere nel cittadino l’interesse per le arti, hanno tagliato fondi per lo sviluppo e per la manutenzione del nostro settore culturale, hanno lasciato marcire i nostri beni archeologici ed infine hanno sottopagato il personale, ridotto le ore di storia dell’arte nelle scuole, affossato l’editoria del cinema, del libro e della musica. A questo si è contrapposta la promozione di modelli sociali totalmente fuorvianti come il trionfo dell’economia d’assalto, la glorificazione della televisione e delle sue starlettes. I musei d’arte contemporanea deserti sono lo specchio reale di uno stato che non ha saputo far amare la cultura al suo popolo, limitandosi ad imporre una ben più facile cultura del consumismo e dello spettacolo. Questa situazione ha reso ogni polo culturale un mero pretesto per operare creste sulle spese ai fondi pubblici e per piazzare la figura politica di turno. Sono bastati nemmeno trent’anni di questa dissoluzione sociale per trasformare le arti in un contorno povero che non interessa a nessuno e che non produce ricchezza. Eppure i direttori dei musei continuano a percepire profumati stipendi, le società di servizi dell’indotto non possono lamentarsi ed i ricchi industriali della cultura continuano a far soldi alle spalle dei loro collaboratori non pagati. Cosa dovremmo dire ai nostri figli che studiano le arti? Dovremmo forse convincerli a trasformarsi in ragionieri e commercialisti.

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