This is tomorrow alla galleria annarumma

di Redazione Commenta

Da sempre considerata tra i più acuti osservatori dell’arte giovane inter-e-nazionale, la galleria annarumma di Napoli inaugura il 15 dicembre la collettiva THIS IS TOMORROW, consuntivo di un’attività che raggiungerà il prossimo anno, il traguardo dei dieci anni di lavoro sul campo. Sette i talenti in erba individuati per questa occasione: Aaron Angell (GB 1987), Alfredo Aceto (IT 1991), Trisha Baga (USA 1985), Jacob Kerray (GB 1988), David Ostrowsky (D 1981), Ben Schumacher (CAN 1985), Benjamin Senior (GB 1982).

Collezionista di abitudini è Alfredo Aceto, che sempre s’incammina lungo i sentieri in ombra dell’esistenza, lì dove, tra oggetti che non hanno alcun motivo per essere ricordati, risiedono le piccole meschinerie e grandi fragilità dell’individuo, per consegnare allo sguardo un’umanità più vulnerabile, ma certo più sincera. Come una profetessa dei tempi moderni, Trisha Baga ricorre a tutta la tecnologia di cui la creatività contemporanea può disporre per avvisare del divario che c’è tra lo sguardo e la vista, il conoscere e il ri-conoscere, sublimando l’oggetto comune, interlocutore preferenziale della sua e nostra quotidianità. La riduzione lascia spazio alla figuratività più conclamata nei dipinti in cui Benjamin Senior interroga il piacere visivo, il desiderio di uniformarsi e quindi confondersi ricorrendo al gioco illusivo della pittura astratta. Gli echi della pittura anni ’30 – i corpi formalizzati di Oskar Schlemmer e il realismo russo – sono invece l’alfabeto che l’artista adotta per raccontare il culto del corpo contemporaneo.
L’abilità della mano celebra quella del piede nelle pitture di Jacob Kerray: l’artista recupera antiche iconografie della ritrattistica seicentesca, con i calciatori presentati come aristocratici della modernità, che con arroganza appoggiano una coppa campioni accanto a nature morte di gusto retrò. L’immagine costituisce il perno delle ricerche di Aaron Angell e Ben Schumacher, il primo prosciugando nel fondo farinoso giocato su pochi toni terrosi qualsiasi complessità ed eloquenza iconografica, per una realtà conosciuta per frammenti; il secondo mascherando invece dietro cortine di giocosità e ironia un’acuta riflessione sulla deriva silenziosa di immagini e oggetti nell’era di internet. Quasi come lenzuola si presentano le opere di David Ostrowski, sulle quali rimane soltanto la traccia sparuta di chi – o cosa – le ha abitate: segni che l’artista mutua dall’avanguardia americana del dopoguerra, per una pittura concepita come in una parlata impacciata per una lingua masticata con difficoltà.

 

 

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