Le pagelle di Start Milano – Parte 4

di Redazione Commenta

E così siamo giunti all’ultima parte di un progetto più faticoso del previsto. Ecco le pagelle delle gallerie mancanti, le ultime esposizioni che hanno inaugurato in occasione di Start Milano. Se non l’avessi ancora detto abbastanza questa è stata un’avventura personale, ogni giudizio è stato pensato e mai dato per il puro gusto di poterlo scrivere a portata di tutti. Ogni mio pensiero deriva dall’aver visto, aver provato emozioni (o no) e aver vissuto l’arte, con tutto quello che comporta.

Massimo De Carlo – Matthew Monahan | Roland Flexner – VOTO 6+

Nel lavoro di Matthew Monahan la riflessione sulla figura umana non si lascia influenzare da limiti formali o estetici. È un’umanità dissezionata quella che propone, così come esce dalla sua mente la ripropone con materiali grezzi, senza imbellettamenti. Ma la ferocia delle sculture di perde nel riportare gli stessi pensieri sulla carta, corpi a pezzi, collage e grafismi rupestri pongono lo spettatore in quella dimensione ottimale di vicinanza all’arte e di contemporanea estraneità.

Le fotografie di Roland Flexner, invece, raccontano una ricerca di perfezione legata all’imprevedibilità della materia. Giocando con acqua, grafite liquida, carta, fiato riesce a realizzare dei mini paesaggi che attingono all’oriente e all’astrattismo, l’unica variabile che vince su tutte è il tempo. Nella serie al piano terra, la riflessione si spegne in un formalismo estetico un po’ già visto: fotografie di un teschio circondato da fumo, in diversi momenti. Semplicemente immortalando il momento si cerca l’aleatorietà.

Federico Luger – Luca Pozzi | U-Drawings – VOTO np

Questo è un voto mancato di cui mi dispiaccio molto. Come immaginerete non ho visitato le trentasette gallerie tutte al primo giorno di apertura. Quando mi sono avventurata fino a Zona Ventura ho avuto la brutta sorpresa di trovare la galleria Luger chiusa, perché dei vandali hanno rovinato le opere.

Una notizia che non hanno fatto trapelare, anche sul sito non viene menzionato il fatto, anche se sulla porta della galleria era appesa un avviso che invitava appunto a visionare la mostra on-line. Io ovviamente, ligia, sono andata a vedere, ma ben poco si può dire, o giudicare, dopo un video di pochi secondi. Anche perché il concetto sembra essere di quelli conplicati: «Luca Pozzi giunge a strutturare un sistema connettivo circolare composto da installazioni, sculture e disegni (quest’ultimi ottenuti applicando fasci di fotoni ad alta frequenza su un supporto di pittura luminescente) in grado di “fermare” (visivamente) il loro frenetico lavoro mediatico. I disegni di U – Drawings nascono da un processo di “rallentamento” visivo della luce ottenuto attraverso l’uso di un filtro (pittura luminescente) e il conseguente “bloccaggio” definitivo mediante documentazione fotografica». Le immagini incuriosiscono, ho scorto mega pillole fluttanti e strani meccanismi spaziali. Consiglio di prender appuntamento e farsi spiegare tutto, pare centri pure Gulliver.

Francesca Minini – MATTHIAS BITZER | Maison Automatique – VOTO 7+

Ipnotico. Così, mi viene d’istinto. L’artista tedesco fa finta di giocare con Fernando Pessoa e intanto se la ride sotto i baffi. Il celebre scrittore portoghese diede vita a numerosi autori fittizi, veri e propri “altri da se” con personalità e stili di scrittura differenti. Bitzer decide dunque di ritrarre queste facce di Pessoa, intarsiando le tele con i suoi pattern ipnotico, ed ecco che torniamo all’inizio. Nel costruire memorie fittizie l’artista inserisce fattori subdoli di riconoscibilità formale: guardi l’opera e qualcosa ti colpisce, come un dejavù, ma non lo riesci ad afferrare a pieno in quell’intricarsi di cerchi. «Alla fine –scriveva Pessoa nel Libro dell’inquietudine– di questo giorno resta quello che è rimasto di ieri e ciò che rimarrà di domani: l’ansia insaziabile e infinita di essere sempre lo stesso e altro».

Galleria Alessandro De March – Gerold Miller | Early Works – VOTO 4

Forse il trucco per capire tutto ciò è che c’è un motivo se tantissimi giovani scappano a Berlino, ma pochi tedeschi arrivano in Italia, se non per fare il bagno a novembre nel Lago di Garda. Ok, questa è facile ironia, ma mi aggrappo all’idea che le forme mentis sono determinate anche dal popolo con cui vivi e che forse il rigore tedesco non per forza lo dobbiamo capire. Mi aggrappo, dicevo, perché non ho dimenticato la lezione del mio professore di storia dell’arte a proposito delle cortine sacre. E così una cornice, che è una non-cornice perché effettivamente sono barrette di ferro, però non è quadro e quello che mostra sta nel buco in mezzo, cioè in non-dipinto, ecco non mi pare esattamente una riflessione sullo spazio e sull’immagine di quelle rivoluzionarie…

Camera 16 Contemporary Art – Indre Serpytyte | Still Silence – VOTO 6+

Una ventata di novità  fa sempre bene, soprattutto se questa novità nel giro di pochi mesi entra a far parte di Start e a proporre qualcosa di diverso. Camera 16, personificata in Carlo Madesani, propone una giovane artista lituana di casa a Londra che ha trovato nella fotografia il mezzo perfetto per esprimere singoli concetti.

Mi spiego meglio: avendo vissuto sulla sua pelle il dramma della guerra fredda, suo padre era un militare morto in un incidente misterioso, ha deciso di partire da li, dissezionando le emozioni in singole parole. Ogni parola si ritrova in una fotografia, come fosse un vocabolario illustrato. E come ogni autore di vocabolario lavora minuziosamente prima di arrivare alla descrizione perfetta che a volte sta proprio nel lavoro svolto, come mostrano le pagine del suo taccuino. Una mostra schietta, senza fronzoli.

1000 eventi – Alighiero Boetti: da singolare a plurale e viceversa – VOTO 5

Un titolo tanto evocativo quanto poi, una volta li, sempre che riuscite a superare l’empasse della cartina di Start, che come sempre svia lo spettatore, perde di spessore. Nessuno mette in dubbio il valore di Boetti, ci mancherebbe, ma il suo era un lavoro anni Settanta, proprio nello spirito. Quadratini disegnati a penna, segni grafici traballanti che visti oggi sembrano più che altro (quei quadratini che ripresi col cellulare rimandano a contenuti on line). Inoltre manca completamente quella dimensione antologica che avrebbe potuto rendere la mostra non attuale, ma almeno interessante da altri punti di vista.

Galleria Raffaella Cortese – WILLIAM E. JONES | Alternative Version – VOTO 6+

Inquietante ed avvolgente, come un thriller: alla fine, sudato, ti chiedi cosa ti teneva fermo sulla poltrona. D’altronde Jones indaga nei bassifondi della cultura americana, nella società così com’è, nella verità che i media non passano. Partendo da materiali visivi diversi: documentari, pubblicità, video personali e  fotografie d’archivio, rielabora l’immagine fino a renderla tante volte illeggibile. Il meccanismo è quello di svelare ciò che sta dietro l’immagine stessa, storpiandola. Un lavoro certosino di sovrapposizioni e cancellazioni che riesce a caricare il mezzo di un fascino sottile. Un sapore retrò che squarcia il velo perché oggi non siamo andati tanto oltre il maccartismo.

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