Giovedì difesa: La pelle che abito

di Redazione Commenta

Dunque accade talvolta che io trovi che un regista che ho amato molto inizi a piacermi di meno… che io pensi che stia perdendo smalto… accade però anche che finisco col capire che nel presunto perdere smalto ci sia un’acquisizione di maturità. Succede suppongo quando si cambia fase… allora perdo la serenità riguardo a quello che avevo acquisito di lui.

Almodovar tira fuori quest’anno un lavoro morboso e a tratti feroce come non so se ne ho mai visti da lui… in altri tratti dolce ma la dolcezza si mescola alla morbosità, diventa la stessa cosa. La pelle, appunto, si sente appiccicata, non si sfugge alla pelle, non si sfugge all’io, e nell’io c’è il proprio sesso.

Cosa accadrebbe se tutto questo venisse manipolato al di fuori delle esigenze della mente? L’amore si fa rapporto di possesso ad un livello esplicito… ecco che mi rendo conto che invece i temi sono sempre gli stessi ma i ritmi ora sono quelli di una danza sudata, costretta, le gambe fanno male qualcosa disturba, è come un male fisico per esempio.

La pelle che abito mi lascia investito da un senso di non io, di non amore, un incubo in cui non si è, da cui non ci si riesce a svegliare. Nessuno dei personaggi è sano, il dramma si è appiccicato a tutto, il dolore si è conficcato ovunque, nessuno è libero e il male (o lo sbagliato) regna ovunque.

La pazzia è la pazzia del non possesso o direi dell’impossibile possesso, non si può avere ciò che non si è… (non è un refuso) si può avere benissimo ciò che non si ha ma non ciò che non si è. E contrariamente al senso comune, qui si può benissimo anche essere ciò che non si è.

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