DAC | Il manifesto per il diritti dell’arte contemporanea

di Redazione Commenta

Gianmaria Ajani e Alessandra Donati sono giuristi e professori universitari uno a Torino, l’altra a Milano. Nel 2010 hanno dato vita al convegno DAC: I diritti dell’arte contemporanea. Volevano forse scrivere nuove leggi? No, perché in Italia non mancano le norme necessarie per regolare il mercato dell’arte, ma difficilmente vengono applicate e questo soprattutto perché non sono conosciute. A distanza di un anno dal convegno è nato un libro, edito da Allemandi, degli strumenti concreti, che vi spiego tra poco, e soprattutto un dibattito che non si è esaurito come ho constatato durante le avvincenti tavole rotonde allestite all’Accademia di Brera questo 10 novembre. È davvero difficile raccontare in poche righe una giornata densa di parole e pensieri, ma considerando i temi trattati credo sia utile fissare su schermo qualche punto fondamentale e allargare a tutti la discussione.

Innanzi tutto riporto qui il Manifesto per i diritti dell’arte contemporanea, concepito da Gianmaria Ajani (Preside della Facoltà di giurisprudenza di Torino) , da Anna Detheridge (presidente Conntecting Cultures)  e Alessandra Donati (Docente della facoltà di giurisprudenza di Milano-Bicocca) insieme a Gianni Bolongaro (La marrana arteambientale) e poi redatto con gli artisti Luca Bertolo, Chiara Camoni, Ettore Favini. Maddalena Fragnito, Linda Fregni, Alessandro Nassiri, e Antonio Rovaldi:

“L’arte contemporanea contribuisce a rappresentare  le identità sociali e culturali del nostro tempo.”

Il diritto rappresenta e definisce le regole per la  gestione dei rapporti sociali, nei diversi luoghi in cui  agiamo. Anche se i due ambiti potrebbero apparire  lontani e potenzialmente in conflitto, tra il principio di libertà  di espressione dell’artista e i limiti posti dalla legge, espressione della “morale pubblica”, da un altro punto di vista il diritto costituisce un sostegno importante per l’affermazione dell’arte contemporanea. Sempre più spesso, l’arte e la cultura in generale sono ricondotte alla fruizione del singolo, misconosciute nel loro reale potenziale quale terreno di confronto e luogo della mediazione nella società complessa di oggi.

Il Manifesto per i Diritti dell’Arte Contemporanea vuole riaffermare alcuni principi di fondo con l’intento di ristabilire e rigenerare equilibrio tra le parti sociali, per favorire una migliore comprensione del ruolo dell’arte nella sfera pubblica.

Si afferma dunque:

1− La centralità dell’artista;

2− Il ruolo pubblico dell’arte contemporanea;

3− Il ruolo e il valore delle istituzioni pubbliche per l’arte contemporanea;

4− Il diritto del cittadino di partecipare più direttamente al mondo dell’arte e della cultura;

5− Il ruolo del mondo privato nel sostegno dell’arte contemporanea.

Si propone:

− Una più alta priorità dell’arte contemporanea nelle politiche culturali;

− La valorizzazione delle competenze professionali nella gestione dell’arte contemporanea;

− L’allineamento della pressione fiscale ai più favorevoli parametri europei e la riformulazione del diritto di seguito per favorire maggiori investimenti e trasparenza;

− L’avvio di “buone pratiche” tra le parti, quali contratti tipo tra artisti e committenti, artisti e gallerie e collezionisti e gallerie;

− La ridefinizione giuridica di temi quali autenticità, originalità, durata e limiti della tutela degli autori;

− Il riconoscimento giuridico del valore di ogni pratica artistica che si definisca tale.”

Partiamo dalla centralità dell’artista, che va considerato come cittadino a tutti gli effetti, quindi come soggetto che paga le tasse, ma che è tutelato nei rapporti lavorativi da contratti. Può sembrare strano pensare ad un contratto per artisti, ma non bisogna dimenticare che le opere vengono vendute in un mercato e per quanto siano di natura ben più complessa di altre merci di fronte alla legge sono condiderate alla stregua di un pesce venduto al supermercato. In Italia poi gli affari d’arte vengono siglati dalla classica stretta di mano, che può sembrare un atto di libertà, ma in realtà è vincolante perché dal punto di vista giuridico anche l’accordo verbale è valido, ma è qui che nascono i problemi. È stato più volte ribadito, anche in seguito a un reazionario intervento telefonico di Massimo Minini, che l’idea di contratto non è un modo per limitare l’azione dell’artista o del committente, ma uno strumento pratico per condiderare prima una serie di questioni fondamentali. Nasce così una sorta di prontuario in cui si toccano tutti i punti di interesse nel rapporto tra artista, committente e collezionista (per qualsiasi informazione su questo strumento andate su http://www.avladivostok.org).

Nel promuovere la buona pratica del contratto, e su questo diamo ragione a Minini che vuole smantellare ogni legge, non bisogna dimenticare che la nostra politica fiscale è la più alta in Europa e questo penalizza fortemente i nostri mercati.

Dagli strumenti pratici lo sguardo si è allargato sul sistema artistico italico e si è perso un po’ il filo, complice il ritardo accumulato sui lavori e la stanchezza che pian piano prendeva il sopravvento. Si è discusso della mancanza di valorizzazione delle competenze professionali e di percorsi formativi adeguati, facendo finta che non ci sia poi un problema enorme di dis-occupazione. I referenti ovviamente hanno parlato della propria esperienza come positiva e d’esempio, d’altronde l’argomento è scottante e si rischiava di ribaltare il significato dell’incontro ad analizzare le pratiche di gestione all’interno di istituzioni pubbliche.

Interessante il punto di vista di Danilo Eccher, direttore della Gam di Torino, che ha sottolineato sia l’importanza del riconoscimento del diritto all’arte del cittadino che la centralità del pubblico nelle politiche delle istituzioni. Si collega così la tavola condotta da Anna Detheridge sulla funzione pubblica dell’arte, che non significa occuparsi di arte sociale, ma di riconoscere la funzione dell’arte nella società. La parola va agli artisti con Paolo Rosa, fondatore di Studio Azzurro, che sposta la questione dal proteggere la libertà dell’artista al considerare invece i limiti che sono insiti nello stare in società. L’arte è esperienza rituale di riconoscimento. Emilio Isgrò racconta il caso giuridico nato a causa della scultura che regalò al paese di  Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia: un seme d’arancia. È giusto distruggere o spostare un’opera d’arte per motivi politici o di gusto personale? Assolutamente no, la cittadinanza infatti non è d’accordo, ma non basta.

Più volte durante la giornata viene ricordato come in Italia manchi un organo di direzione centrale per l’arte e questo certo rende un po’ vani tanti discorsi. Lisa Parola, curatrice di A.titolo, cita Remo Bodei “Abitiamo il tempo del dubbio” e aggiunge: ”L’opera è fragile in questo momento, ma non debole”.

Infine si da voce alle fondazioni private, quegli spazi che stanno salvando un po’ l’Italia dalla programmatica distruzione della cultura di cui siamo spettatori, il loro ruolo però  deve restare di sostegno, non possono e non vogliono sostituirsi alla funzione delle istituzioni pubbliche nella formazione culturale del cittadino.

Se a questo momento di discussione sommiamo i movimenti spontanei che stanno nascendo in diverse città  (dal Teatro Valle a Occupiamoci di Contemporaneo) e le diverso organizzazioni no-profit sparse sul territorio possiamo renderci facilmente conto di come il mondo culturale sia vivo più che mai, anzi il totale fermento non può essere che un segno positivo da cogliere al volo.

 

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