Chi non parla alla polvere alzi la mano

di Redazione Commenta

Ho comprato dai cinesi un grosso pacco di Swiffer tarocchi. Io non faccio mai la polvere, la lascio fare, si posa sorniona sulle superfici più impervie e ormai ci sono strati talmente alti sopra le cose che sono costretta ad intervenire. “Fare la polvere” mica la costruisco, la tolgo, è un controsenso. Odio la polvere, tutti la odiamo, ogni volta che ne togli un granello ne rispuntano altri dieci, ci guarda beffarda, invincibile, e ci ricorda che non c’è via d’uscita.

Una parabola buddista narra di due fratelli Shudapanthaka e Mahapanthaka. Il primo era un discepolo diretto del Buddha Sakyamuni, ma per quanto si impegnasse non ne capiva gli insegnamenti. Mahapanthaka allora lo ordinò monaco e cercò invano di insegnargli la dottrina buddista, ma Shudapanthaka non capiva, così fu rimandato a casa.

Lungo la strada incontrò il Buddha, che lo portò in un tempio e gli disse di spazzare il pavimento ripetendo due sole parole: «spazza» e «polvere». Lui iniziò, ma per quanto si sforzasse la sporcizia immediatamente ritornava sul pavimento. Shudapanthaka dovette spazzare a lungo per comprendere che non si può far nulla per la polvere, ma si possono spazzare via dalla propria vita le impurità causate dalle emozioni, il desiderio, l’odio e l’ignoranza.

La polvere: che la si affronti con il cinismo che mi è proprio o con l’armonico approccio buddista poco cambia, tanto vale usarla come pretesto. Melvin Moti ha ben pensato ad una mostra intera in suo onore From Dust to dust – Dalla polvere alla polvere fino al 5 settembre presso la Galleria Civica di Trento. Un piccolo gioiello nascosto tra i monti (mi riferisco sia a Trento, che alla Civica, che all’esposizione) che vale la pena di visitare.

Moti trae ispirazione dalla Peacock Room, una sala da pranzo (attualmente conservata nella Freer Collection di Washington) che un armatore di Liverpool, Friederick R. Leyland, fece ridecorare tra il 1876 e il 1877 dall’artista inglese James Abbott McNeill Whistler. In quei tempi si seguiva lo stile vittoriano, per quanto riguarda l’arredamento, una decorazione d’interni casuale che dava poco peso al contesto. Whistler invece anticipò la concezione moderna di allestimento e mise in relazione tra loro tutti gli elementi costituenti la stanza. Ispirato da questi insegnamenti Moti ricrea in toto gli spazi della Fondazione utilizzando tessuti, tappezzerie, mobili antichi e perché no, anche quadri.

La Peacock Room è  solo un tassello del tutto, in ogni ambiente ci verrà raccontata un storia diversa, le opere diventano gli indizi raccolti dal detective per sbrogliare la matassa. Sono le gesta di chi è ormai polvere raccontate attraverso gli occhi di un artista, quindi vivisezionate e date a noi in granelli essenziali.

Nel curato libretto che regalano all’entrata l’esposizione viene introdotta così: “La mostra, interamente dedicata al fenomeno bio-chimico, ma anche storico-estetico, della polvere scopre e perlustra il grado zero dell’espressione artistica, riflette cioè su cosa possa ancora essere un’opera d’arte quando essa venga misurata lungo un orizzonte di tempo e spazio indefiniti, universali, ricondotta al suo senso e alla sua manifestazione più estesi, o più ridotti.” E così Melvin Moti gioca con le opere altrui, con i pezzi di esistenze fallite da altri, costruisce una sorta di teatro dell’illusione che affascina per armonia e bellezza formale, ma inquieta, necessariamente, aggrappati come siamo alle nostre esistenze polverose.

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