Le pagelle di Start Milano – Parte 3

di Redazione 1

Ormai dovreste sapere di cosa si tratta, ma per i ritardatari ricordiamo che quello che segue è una traccia, un esperimento. Ho deciso di visitare tutte le mostre inaugurate in occasione del weekend di Start Milano e di recensirle brevemente. Terrei a sottolineare che tutto ciò che segue è vero, ma non univoco, è un racconto di ciò che ho visto di persona. Quello che suggerisco è di andare voi a toccar con mano il più possibile perché ogni occhio vede diversamente, quello che vi anticipo è che finalmente salgono un po’ i voti, perché non sono una critica a priori, o una a cui piace stroncare per divertissement, ma se l’emozione arriva io la faccio passare fino a voi, o almeno ci provo.

Le case d’Arte – Aldo Lanzini | La goccia – VOTO 6

La goccia a cui si riferisce il titolo è un suono che accompagna la visione, un aiuto per comprendere quella sensazione di sospensione che l’artista vuole esprimere. Le opere sono molto diverse tra loro, unite dal fil rouge concettuale. Il bello è che Lanzini in qualche modo decide di fregarsene della comprensibilità e decide di lasciar spazio al suo flusso interiore e stranamente diventa più comprensibile perché semplice: rami di feltro, il tessuto senza trama ne direzione, diventano contemporaneamente abbraccio per lo spettatore e sinonimo della nostra società; mentre al centro della sala un totem di faccia senza volto si lascia interpretare irraggiungibile. Uno scorcio sulla persona-artista e il mondo in cui vive, che poi, è il nostro.

Ermanno Tedeschi Gallery – ARIELA BOHM, GABRIELE LEVY E TOBIA RAVÀ – VOTO 5

Una riflessione particolare quella portata in scena nella minuscola saletta di ETGallery: tre artisti che utilizzano l’alfabeto ebraico come base per il proprio lavoro. Tobia Ravà ci costruisce grafiche quasi psichedeliche di grande formato, Gabriele Levy scolpisce lettere su terracotta che poi smalta e Ariela Bohm trasforma i segni in paesaggi onirici. Quello che mi ha colpito, sfavorevolmente, è la mancanza di riflessione, non nel lavoro degli artisti, ma nel modo di porli: mancava proprio lo spazio per far respirare le opere e quindi non c’era dialogo. I quadri così mutilati perdono di intensità e quella spiritualità che si dovrebbe ricondurre ad un linguaggio millenario come quello ebraico non arriva all’occhio.

Project B Contemporary Art – JAKE E DINOS CHAPMAN | The sun will shine brightly on your rotting corpse whilst your bones glimmer in the moonlight – VOTO 6+

Questa esposizione meriterebbe un bel voto in più, ma lo meritava quando andai a visitarla a fine giugno: era un lunedì di sole, la città era silenziosa e vuota e il sole splendeva brillante sul nostro cadavere marcio mentre le nostre ossa risplendevano al chiaro di luna. I fratelli Chapman sono visionari, ogni volta mi sorprendo chiedendomi come due corpi possano essere così in sintonia, produrre opere che parlino per entrambi e esprimere così tanto disagio che nemmeno in due corpi potrebbe essere contenuto. Angoscia e attrazione si mischiano di fronte alle loro opere, così irriverenti nelle forse, e giocose, come un horror per bambini ormai cresciuti. Insomma era una mostra da vedere, quando faceva caldo e la città era vuota, così da poter rielaborare ciò che si vedeva una volta usciti di li, invece ora la mostra è chiusa e ProjectB fondamentalmente non ha ancora iniziato la stagione.

 Riccardo Crespi – Gal Weinstein | Beside, Each, Other – VOTO 8+

Emozionare, forse è  ingenuità la mia, ma per me questo è quello che l’arte deve fare. E chiudersi alle spalle la porta di una galleria portando via un carico emotivo forte, che permane, è raro. Questa mostra emoziona. Innanzitutto lo spazio della Galleria Crespi è perfetto, così sospeso tra appartamento e spazio espositivo, in equilibrio così come lo siamo noi nel mondo: in equilibrio tra noi stessi e la società. È questa sensazione di dover sempre bilanciare noi stessi che Gal Weinstein esprime alla perfezione, non senza un pizzico di polemica, come a volerci un po’ scuotere. Il messaggio è iper-diretto, senza errori di traiettoria; a ciò si aggiunge una capacità che rasenta la follia nell’individuare i materiali più strani ed utilizzarli come fossero tempera o creta. Scommetto che voi di fronte ad una paglietta per sgrassare i piatti non avete mai pensato di usarla per dipingere, lui si. E se ancora non bastasse a convincervi non dovete far altro che scendere al piano inferiore per lasciarvi travolgere da copertoni in fiamme.

“Così, tra istanze individuali e collettive, tra l’ordine e il caos, il controllo e l’esplosione, tra la rivolta e l’accondiscendenza emerge l’immagine dell’ uomo alle prese con desideri soggettivi, con un senso di responsabilità nei confronti del contesto, con la difficoltà di mantenere una posizione autonoma all’interno di un corpo sociale che tende alla conformità.” Così redita il comunicato stampa, andando a cogliere in pieno l’impatto della mostra. E chiusi alle mie spalle la porta e sentivo dentro che tutto ribolliva.

 N.O. Gallery – VIRGINIA OVERTON | Untitled (Milan) – VOTO 7+

Lo spazio della N.O. Gallery è piccolo, forse si è capito che io allo spazio ci tengo. Credo che avere spazio possa aiutare, molte volte, in questo caso invece lo spazio è quello che basta. Virginia Overton ho creato un’installazione site specific che limita lo spazio e lo amplifica allo stesso tempo. Grosse travi in equilibrio precario perdono funzionalità, diventano linee tridimensionali, diventano pura armonia. Come in un teatro sperimentale si moltiplicano le storie raccontabili attorno a ciò che resta. A render ancora più  apprezzabile il tutto, e a rimetterci al nostro posto di spettatore, sono le fotografie dell’opera fatte dalla stessa artista: opere di una forza sorprendete, che in un attimo ti fan pensare che in fondo non hai capito nulla, la Overton è il capo cantiere, noi formichine.

Otto Zoo – PARALLEL ACTS | Jani Ruscica – VOTO 8

Io ci voglio tornare e prendermi tutto il tempo necessario perché qui non si vede una mostra, si va al cinema della vita. I lavori di Ruscica (1978 Savonlinna, Finlandia) presentati a Milano vengono così definiti “…Evolutions (2008), premiato l’anno scorso alla Kunstfilm Biennale di Colonia, e Beginning an Ending  (2009), i suoi lavori più cinematografici, girati in studio a Helsinki, recitati da attori non professionisti, costruiti con un impianto scenico teatrale, minimale e suggestivo, che ricorda il teatro brechtiano e di conseguenza la magia di Dogville di Lars Von Trier.” Queste sono le uniche informazioni pratiche che servono.

Da dove veniamo e dove andiamo, rimarrete sorpresi: anche in Finlandia se lo domandano, ma cercano anche delle risposte. Risposte che non per forza devono esser vere o verificabili, sono invece storie, così fantastiche da esser quasi reali, ma poco importa. Due generazioni a confronto: giovani che raccontano l’inizio e adulti che descrivono la fine; un ribaltamento di quello che succede di solito nella realtà, dove gli anziani ricordano il passato e noi giovani dovremmo guardare al futuro. Nulla di più falso in effetti. Così è decisamente meglio immergersi nei 40 minuti di fantasia ed evocazione, sicuramente meglio dei film usciti al cinema. È glacialmente caustico ed allo stesso tempo catartico.

Nowhere Gallery – Alessandro Rolandi | GIOCANDO SULLA PORTA STRAPPAVO I FIORI – VOTO 5+

Un italiano che vive a Pechino, affascinato dalla cultura orientale e dal suo di venire, che prende oggetti e li appiccica, letteralmente, sul muro. In questa mostra però, perché Rolandi è uno di quelli che non si mettono limiti, uno di quelli che non vede i limiti. Così a partire dal titolo della mostra gioca con parole e concetti, con immagini semplici e archetipi complessi, felice di esser giudicato brut, perché, dice lui, indica un’intensità di vita emotiva, un approccio diretto e “pericoloso”. Un artista senza rete che beffeggia i grandi e gioca con la follia. Uno di quei casi in cui il concetto è molto più bello a parole, peccato.

Impronte Contemporary Art – RITI SENZA MITI | Said Atabekov, Egill Sæbjörnsson, Lorenzo Scotto di Luzio, Yelena Voroboyeva e Viktor Vorobyev, Lin Yilin, Artur Zmijewski – VOTO 7

Il rito che si ripete, l’arte che è rito, quindi l’arte nel suo ripetersi diventa mito, no anzi non diventa mito, è solo un rituale attraverso cui l’artista –officiante sovverte la realtà. Questo è quello che ho capito del significato del titolo, cioè quasi nulla, però il mix di opere è scelto con giudizio e nel complesso l’allestimento è fluido. Said Atabekov con fotografie dai colori brillanti racconta stati di potere, sottomissione e morte. Egill Sæbjörnsson  invece sorprende di quella sorpresa bambina creando giochi di luce riflessa accompagnati dalla vibrazione del suono, è come esser sospesi in un ambiente sintetico in cui regna la pace. E poi Artur Zmijewski ti riporta coi piedi per terra, anche troppo. Un colpo allo stomaco assestato, crudo, violento. 80064 (2004), è il titolo del film e rimanda al numero tatuato sul braccio del novantaduenne Józef Tarnawa, ex detenuto di Auschwitz. Sarebbe davvero da far vedere a tutti perché chiarisce un paio di concetti che a sessantacinque anni di distanza qualcuno ancora dimentica.

 Galleria Galica – No fear beyond this point | Sebastiaan Bremer, Marco Di Giovanni, Arthur Duff, Maria Friberg, Arcangelo Sassolino e Jari Silomäki – VOTO 7+

Il problema, oggi, è  non aver paura. Non essere bloccati dal lavoro sbagliato, dagli studi sbagliati, dalle relazioni sbagliate, dalle risposte mancante e le crisi che giustificano. Oggi chi non ha paura non vive. Così gli artisti di Galica ci aiutano, ci prendono per mano e ci sussurrano che presto andrà tutto bene. I buchi dei proiettili diventano stelle, i ricordi diventano telai su cui giocare, gli abissi diventano finiti e sulla strada di nebbia non sei da solo. Addirittura la scatola nera che emette terrore puro, la televisione e i suoi programmi, vengono esorcizzati, diventano macchiette e frasi ricamate sulla tela, come a dire che tutto, se si trova il capo della matassa, può essere smantellato, risolto. Si può non aver paura, anche oggi, almeno per un po’.

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