Seppur con ragionevole ritardo sentivo di dover condividere con voi le mie impressioni a riguardo.

di Redazione Commenta

Sono passati troppi giorni perché la memoria italiana si ricordi, ma dal 3 al 6 febbraio a Milano è andata in scena la prima di The Affordable Art Fair, format internazionale che propone agli astanti opere d’arte al di sotto dei cinquemila euro. Un’idea decisamente attuale premiata infatti da più di diecimila visitatori e grandi vendite che han reso felici gli organizzatori, primo su tutti Marco Trevisan: colui che nei giorni precedenti all’evento ha condotto una campagna pubblicitaria serrata sulla sua persona parlando della fiera.

Questo sarà un articolo breve, solo qualche osservazione che avevo desiderio di condividere, la premessa, ci tengo, è che sono assolutamente favorevole a manifestazioni di questo tipo i cui intenti alla base sono encomiabili. Inoltre a corollario della fiera erano stati organizzati una serie di incontri e attività educative che manifestavano la volontà di presentare una proposta completa ed importante. Non avendo potuto parteciparvi però non posso dire se in quel frangente abbiano fatto centro.

Per quanto riguarda la fiera invece se ha fatto centro non è stato nel mio cuore.

Lasciamo perdere polemichine del tipo: un biglietto da dodici euro per una fiera d’arte abbordabile o che il pubblico a cui era rivolta sono giovani per lo più disoccupati o magari con ottocento euro al mese per cui alla fine chi faceva gli acquisti era sopra gli anta o i pochi fortunati trentenni d’altri tempi. Il frangente economico è stato l’unico totalmente aderente alle premesse.

Gli spazi erano decisamente sottodimensionati e veramente non me ne faccio una ragione poiché  conosco bene la location e c’era sicuramente una parte inutilizzata. Gli stand erano simili ai corridoi, come grandezza, e i corridoi a tunnel in cui è avvenuto un incidente: appena qualcuno si fermava iniziava l’ingorgo. Gli spazi erano piccoli e le gallerie invece troppe e con troppe proposte ognuna. Era tutto un riempire ogni centimetro di parete con opere, fino al soffitto, e poi anche su tavoli, plinti, scatole… So bene quanto sia difficile per un gallerista decidere quali tra i propri artisti portare a queste manifestazioni, ma se l’offerta è troppa il pubblico entra in crisi.

Inoltre visto l’intento della fiera: cioè avvicinare ai giovani al collezionismo non si poteva pensare a meno offerta ma più spiegata, più accessibile anche a livello di fruibilità? Un’esperienza in fondo più simile a quella che è nella realtà, quindi non il banco del mercato?

Concluderei parlando di quello che ho visto come opere, che viste le pecche di cui sopra, passavano in secondo piano. Ho visto decisamente poche cose degne d’interesse, ma si sa che sono una snob. Tanta street art, tanta pop art, tanta fotografia, ma in nessuna vedevo freschezza o innovazione. C’era invece molta ricerca giovanilistica, che magari gli stessi tra qualche anno avranno effettivamente qualcosa da dire, ma ora è prematuro. Molti bravi disegnatori, altri bravi imitatori. Molta illustrazione e poco sarcasmo.

Mi hanno colpito lo stand di Aria Art Gallery di Firenze che presentava C-arte del XX secolo, cioè quadri senza autore realizzati con sontuose carte da parati storiche. La Galleria Bianconi con la sua b.projectroom ha portato Andrea La Rocca e Aura Zecchini, vincitrice da poco di Co.Co.Co. Como Contemporary Contest. Da tenere d’occhio le mappa di Federico Gueri, con Gasparelli Arte Contemporanea. Infine, tra le poche straniere, da menzionare la spagnola Villa del arte Gallery con le inquietanti facce di ceramica e porcellana di Johan Thunell e le fotografie sospese di Marc Harrold.

Non ci resta che attendere la prossima edizione, se aggiustano un po’ il tiro credo si possa rivelare essere una vera rivoluzione.

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