La new generation è U.S.A. e getta

di Redazione 1

1979, 1979, 1981. Sono gli anni di nascita dei tre giovani artisti più chiacchierati delle ultime ore, dichiarati enfants prodige della nostra Era, ormai sempre più dominata dall’appeal che gli artisti hanno nel loro paese d’origine, in questo caso gli Stati Uniti, un continente dove la storia inizia solo nel 1776. Stiamo parlando di Nate Lowman, Dan Colen e Dash Snow. Quest’ultimo scomparso nel 2009 alla splendida età di 27 anni per una dose eccessiva di droga. Una di quelle patetiche figure che andavano di moda ai tempi di Rimbaud e Verlaine. Quella tipologia di artista maledetto che negli anni ’80 rivide la luce grazie alla Factory di Warhol che ebbe la forza e la scelleratezza di creare personaggi entusiasmanti come Basquiat e Haring. Persone che nel tempo si sono conquistate la fama e il titolo di “artista”. Oggi questo insieme di lettere è sulla bocca di tutti, ma veramente pochi ne conoscono il vero significato.
In ogni caso possiamo tranquillizzarci tutti, non ci troviamo di fronte ai nuovi genii delle arti visive in grado di girare le poche carte coperte del noiosissimo tavolo dell’arte contemporanea, e questo per un solo motivo: la differenza con gli artisti veri si vede a occhio nudo. Si nota nella qualità del lavoro, nella proposta, nella ricerca infantile, datata e figlia di una generazione di graffitari post-punk che non vale più la pena neanche di testare. Di fronte alle opere di Dan Colen si può addirittura rabbrividire pensando a quello che fecero Rauschenberg e Arman negli spendidi anni ’70. E pensare che Rauschenberg è scomparso solo un anno prima di Snow a ben ottantatre anni, insomma una dignitosa carriera da artista, lunga una vita, a differenza di una vita abbandonata sul marmo di una suite d’hotel, in cambio di una dose in più.
Ma la domanda che rimbomba nella calotta cranica di tutti è: cosa ha più di altri questa generazione di artisti? Innanzitutto il fatto che tutti quanti siano figli di una società americana che si sostiene a vicenda. Ma anche il fatto che siano tutti maledettamente accoppiati con modelle e trattati dalla stampa locale come giovani rock star. Rock come i musicanti di Brehma, simil anni ’80, che si portano dietro ogni volta che espongono l’ultima produzione. Una forma di sostegno invidiabile qui in Italia, dove i nostri artisti non sono neanche invitati alle mostre istituzionali dei nostri musei o, se vengono invitati, si trovano accumulati in un Padiglione Italia senza selezione e dignità. Un processo che la Cina ha recepito bene nel momento in cui doveva creare la sua scena artistica contemporanea, che addirittura la Turchia sembra aver intuito e che a breve succederà in quell’America latina piena di talenti con un grande futuro.
Ma andiamo per gradi.
Dashiel Snow, detto Dash, newyorkese. Acquista improvvisa notorietà grazie alla copertina del settimanale New York, ritratto insieme a Dan Colen e Ryan McGinley. Il servizio si intitola “I figli di Andy Warhol”. Il suo spirito dissacrante e ribelle lo porta ad essere rinchiuso in un penitenziario già a 13 anni. Ma sua nonna è potente, Christophe de Menil, una delle più prestigiose famiglie del Paese che diede vita alla Menil Collection di Houston, che commissionò la Rothko Chapel e che per la sua strepitosa carriera da medico (la famiglia è soprannominata con l’appellativo “I Medici d’America”) spesso si è ritrovata a salvare la vita al nipote vizioso.
Suo nonno materno è un certo Robert Thurman, padre di Uma. In pochi passaggi si può intercettare la facilità di approccio che ha il piccolo Dash agli ambienti dell’arte più significativi e dell’Hollywood più perversa. Nel 2007 ha una figlia da Jade Berreau, una photoeditor che lo presenta a mezzo mondo editioriale newyorkese, ma quello che più vuole Snow è la droga. E così il 13 luglio del 2009 saluta tutti in una stanza del Lafayette House, prestigioso hotel di Manhattan da 325 dollari a notte. Per fortuna prima di morire ci lascia un video da guardone anni ’70, in cui riprende da lontano la sua piccola portata per mano dalla mamma. Da brividi.
Dan Colen viene dal New Jersey. Anche lui figlio della cultura urbana street-punk, inizia utilizzando alcuni quadri di paesaggi rinascimentali come base dei suoi lavori. Vi applica elementi contemporanei, collage, gomme da masticare, pittura, spray, rigenerando opere morte e donandogli una vita nuova grazie al recupero di qualcosa ormai non più leggibile. Lavoro interessante, fino a quando non decide di proporre una installazione provocatoria nel cortile della boutique parigina Colette. A Parigi Colette detta moda, e così Dan Colen, figlio della New York modaiola si adegua e propone un accumulo di Velib, le biciclette a nolo messe a disposizione dalla capitale francese. Una provocazione che neanche Mister Bean avrebbe potuto congegnare. Un gesto che condanna la sua produzione. Da qui comincia ad accumulare oggetti usati e immondizia mista a pittura, tanto che a Roma, ospitato da Gagosian, decide di presentare una serie di opere su questo filone. Un processo già conclusosi con Rauschenberg e Arman per molti, ma che, soprattutto, non giustifica i folli prezzi delle sue opere: circa 250.000 euro a pezzo.
In compenso a Palazzo Rospigliosi recupera la sua identità dannata proponendo tele bianche grandi come le pareti che le accolgono e offrendo ai comuni mortali una visione d’insieme che ha dell’imbarazzante. Una sommatoria di frasi in nero: “Oh my God”, ” Oh Momma”, “Oh Fuck”. Servirebbe uno di quei graffitari romani per fargli riscrivere a spray la stessa frase che i suoi compagni d’avventure hanno lasciato sulla tovaglia del Caffe delle arti durante la notte, luogo deputato per far divertire i giovanotti americani vestiti con camice a quadrettoni, luogo dove si è consumato uno dei party after-show più tristi della storia dell’arte.
Nate Lowman, forse il più interessante di questa scena. Interessante perchè le notizie che si trovano sulla sua vita privata non lo pongono sotto la stessa luce dei suoi due connazionali. O quasi, visto che la sua ex-compagna è l’attrice pluricliccata Mary-Kate Olsen. Ma la cosa che più lascia perplessi è la breve descrizione che offre Wikipedia sul suo conto e concentrata tutta nel sottolineare le parole con cui il critico del New York times ha descritto il suo lavoro. Ma anche nel suo caso non si capisce come la sua mostra di esordio sia avvenuta al P.S.1 e non in una qualsiasi galleria di Chelsea. L’immagine scelta per la comunicazione della mostra è uno smile sorridente sovrascritto sulla bocca iconica dei Rolling Stones, il tutto tatuato su un pene. Verrebbe da dire “ecco a voi una mostra del cxxxo”, e invece, secondo i critici più esperti, sembra proprio che questo genere di arte guardi al futuro.
Cosa offre più di altri questa generazione di artisti? Beh una risposta ora l’abbiamo: la noia.

Commenti (1)

  1. Geniale questo articolo!

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