Chuck Close ed il filtro photoshop gratuito

Cosa succede se uno degli artisti più ricchi del mondo ti ordina di non creare più le tue opere d’arte? Gli dai retta o continui per la tua strada, infischiandotene? Questa bizzarra vicenda si è sviluppata non molto tempo fa ed ha come protagonisti principali il celebre artista Chuck Close e Scott Blake, giovane ed intraprendente digital artist. Nel 2001, Blake iniziò a lavorare al suo Chuck Close Filter, un’idea nata dopo aver partecipato e vinto gli Adobe Design Achievement Awards per il Barcode Jesus, un filtro per il famoso programma di fotoritocco Photoshop.

Dopo aver studiato attentamente ogni singola tessera che va a formare i celebri ritratti di Close, Blake riuscì a mettere a punto un filtro fenomenale, capace di riprodurre all’istante i dipinti del grande artista, partendo da una semplice foto. Sette anni dopo, nel 2008, grazie alla connessione a banda larga, l’artista riuscì a mettere online il filtro. A quel punto però, Chuck Close si accorse del fattaccio e spedì una mail a Blake.

Il remix, la nuova moda dell’arte

La battaglia legale che ha visto come protagonisti il fotografo Patrick Cariou e l’artista Richard Prince, colpevole di avergli soffiato alcune immagini della serie Canal Zone, ha tenuto banco per tutta la durata dello scorso anno. Anzi a dirla tutta la quaestio è divenuta un vero e proprio caso di studio, tanto che negli ultimi giorni la New York Law School ha organizzato una lecture di tre ore sul copyright infringiment, vale a dire sulla violazione delle leggi sul copyright.

Tra i vari punti trattati si è parlato di quando e come è possibile definire l’appropriazione indebita di opere protette dalle leggi sui diritti d’autore. La cosa è in realtà abbastanza facile in certi casi, anche perché prendendo ad esempio le foto di Richard Prince era assai semplice notare la palesemente scopiazzatura. Ma anche il nostro Shepard Fairey si è impegnato alla grande con il suo Hope poster per la campagna presidenziale del presidente Obama. In quel frangente lo street artists più falso del mondo aveva preso in prestito una foto dell’Associated Press.

Shepard Fairey scende a patti con l’Associated Press

Se non riesci a batterli, fatteli amici. Mai motto proverbiale fu più azzeccato di questo per la vicenda AP contro Shepard Fairey. Se ben ricorderete da quasi due anni il celebre street artist americano è in causa con la Associated Press per quanto riguarda l’iconico poster Obama Hope (2008). Dopo aver praticamente sostenuto la campagna presidenziale di Obama, rappresentandone l’immagine-simbolo, il celebre poster ha dovuto fare i conti con la legge sul diritto d’autore.

Mannie Garcia è infatti l’autore del celebre scatto che in seguito è stato manipolato digitalmente da Fairey divenendo una delle immagini più conosciute del presidente americano. Ebbene dopo aver in principio negato ogni tentativo di “scopiazzatura” e dopo aver maldestramente tentato di nascondere le prove del misfatto, lo street artist si è dovuto arrendere all’evidenza ed ha quindi iniziato un lungo patteggiamento con la AP, nella speranza di evitare un vero e proprio salasso milionario.

Al MACRO di Roma la Treccani sottolio, conserva di una cultura ormai scaduta

In questi giorni (inaugurata il 16 dicembre fino al 16 gennaio 2011) il MACRO di Roma ospita una curiosa mostra di Benedetto Marcucci intitolata Treccani Sottolio. L’installazione è appunto costituita da volumi della celebre enciclopedia conservati come se si trattasse di sottaceti. L’intento è quello di conservare la validità di un’istituzione tutta italiana che negli ultimi anni è stata vittima della grande rivoluzione Wikipedia. Parlando di dati nel 2003 l’enciclopedia Treccani aveva un bacino di ordini di 50mila unità mentre nel 2009 le ordinazioni si sono praticamente dimezzate scendendo a circa 26mila.

Questo poichè Wikipedia ha aperto le porte del sapere a tutti, concedendo gratuitamente un mare di informazioni. Dalle pagine de Il Giornale apprendiamo che Wikipedia non è attendibile e che la Treccani ha quindi qualcosa in più da offrire. Questo potrebbe essere anche vero ma è pur vero che questo calo di attenzione generale e colpa di un’industria italiana  che non si è saputa adeguare ai cambiamenti della rete.