La forza dell’arte, La leggerezza di un mezzo corpo

di Redazione Commenta

A metà tra un cortometraggio, una pièce teatrale, un musical cinematografico di una certa complessità narrativa e coreografica (per intenderci Chicago di Rob Marshall del 2002), il coinvolgente e articolato video The Cost of Living fonde differenti e numerosi elementi tanto da porlo al di fuori di qualsiasi rigida classificazione. Basato sull’omonima produzione teatrale concepita e diretta da Lloyd Newson (Melbourne, 1957; lavora a Londra dove nel 1986 ha fondato DV8 Phisical Theatre), il video è stato infatti commissionato nel 2004 dal Channel 4 Television britannica e la scheda tecnica lo identifica come film.

Conosciuto a Roma per la sua partecipazione a due edizioni di RomaEuropa Festival, nei 35 minuti di The Cost of Living Newson, nel suo modo usuale, studia i comportamenti umani e tratta diversi temi, per lo più sociali, abbinandoli all’agilità puntuale di sincronizzate coreografie di danza/balletto, ad una fotografia senza sbavature e ad una ripresa video che fa proprie molti stratagemmi cinematografici che vanno dal sapiente uso del primo piano per sottolineare alcuni aspetti psicologici a delle equilibrate composizioni prospettiche e del fuori fuoco. Girato in una semideserta Cromer, una piccola cittadina che si affaccia sul Mare del Nord sulla costa di Norfolk, seppur i principali protagonisti siano Eddie Kay e David Toole (altra caratteristica questa del regista di utilizzare i nomi propri dei personaggi coinvolti), Newson fa diventare protagonista anche la stessa atmosfera desolata di fine stagione estiva della cittadina balneare. In un clima rarefatto, a volte surreale, quasi paradossale (come la ragazza hula-hooper Kareena Oates) che a volte richiama alla mente quello felliniano di Otto e mezzo, s’intrecciano situazioni di scene interconnesse con racconti di atti paralleli. Eddie e David sono amici e condividono praticamente tutto, dalla casa al lavoro -tutt’e due sono artisti di strada- ma niente di più diverso per carattere e, soprattutto, per aspetto fisico: Eddie è alto, biondo, conflittuale, caustico; David è un mezzo corpo, scuro, pacato, tollerante. Ma entrambi disposti a difendere fino all’estremo la propria integrità e a non permettere che la vita interferisca con i loro ideali.

Ogni scena, come tanti quadri posti in successione, rappresenta un tema, dalla noia della routine lavorativa, all’omofobia aspra, all’amicizia, all’amore, quello tra Kareena e Rowan Thorpe, un amore fatto di silenziosi dialoghi espressi solo dal movimento dei cerchi. Un Rowan che, dietro la sua apparente compostezza e serietà, nasconde un immenso universo, che lentamente e non senza difficoltà esplode sulle note di Do you believe di Cher. La forza d’animo di David che non vuole assolutamente permettere che la disabilità fisica possa influenzare la sua vita trova profonda espressione in molti momenti del film. Ma l’acme poetico è raggiunto, oltre che nell’amara scena finale, nel passo a due fra David e una ballerina. Pochi attimi, in cui tutto si ferma, anche il respiro, in cui tutto diventa delicato e leggero, perdendo completamente corporeità fisica. E con la forza dell’arte, un momento di perfetta comunione è raggiunto, in cui ogni differenza è completamente abbattuta. Un uomo, appunto senza gambe, si muove sulle mani con una grazia indescrivibile, vibrando nell’aria come un anacronistico folletto o uno spirito buono e amorevole che volteggia come se non esistesse forza gravitazionale. Sono pochi attimi, che hanno però una forza che ne estende la durata quasi all’infinito. Certo, trascorsi quei pochi secondi, tutto riprende il regolare corso e l’amarezza di un’impossibilità è notevole, ma rimane la poesia di quel breve incontro.


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