Christian Haake: l’illusione della memoria

di Redazione Commenta

Cos’è la memoria se non il nostro bisogno di restituire un sistema di valori al fluire inconsapevole del tempo. Come essa è in grado di modificare la percezione della realtà?Sono questi i temi affrontati nel lavoro di Christian Haake, per la prima volta protagonista di una personale al GAK Gesellschaft für Aktuelle Kunst a cura di Janneke de Vries.

La ricerca di Haake verte da tempo proprio sulla costruzione di memorie fittizie, edificate attraverso il filtro personale dell’esperienza dell’artista e denunciabili attraverso minimi dettagli. Quest’ultimi, rivelandone ad un’attenta analisi, la natura artificiosa, mettono in risalto un processo di mistificazione che nella quotidianità assume una connotazione ambigua e difficilmente riconoscibile.

Perché questo avvenga è appunto necessario sfruttare l’immaginario mnemonico collettivo. La memoria si fa portatrice di esperienze artificiali perché, in qualche modo, ne riconosce dei presupposti, delle analogie con il comune sistema esperenziale.

Siamo nell’ambito della narrazione, intesa come esigenza insuperabile di dare significato al continum spazio temporale in cui si è inconsapevolmente immersi. Ma se la cultura moderna ha dimostrato l’impossibilità di una narrazione sensata a più livelli, appare oltre modo chiaro che proprio innestandosi in essa, sovvertendone i presupposti, è possibile raggiungere la meta tanto agonista e solo temporaneamente raggiungibile, della libertà sensibile. Non si può prescindere dai sistemi ma si può avvertirne la natura ambigua e vivere nella consapevolezza e nella necessità di sentire diversamente.

White Elephant, l’opera che Haake ha installato per l’occasione, consiste in due elementi che dialogano tra loro. The Passage è una costruzione, in scala ridotta, di una facciata di un negozio in tipico stile anni 60 che piuttosto che esibire merci convenzionali, mostra lo “spettacolo” della realtà.

Le pareti trasparenti diventano luogo di attraversamento e alludono ad una spazialità dilatata oltre le convenzionali possibilità dello spazio istituzionale. In realtà l’illusione è data da un film, anch’esso volutamente intitolato White Elephant, che fa da sfondo all’architettura trasparente.

Il film, analogamente alla struttura, mostra le tracce di una bottega fantasma. L’assenza diventa dunque la vera protagonista, il vuoto dello spazio reale e di quello fittizio, l’attesa per qualcosa che non si manifesta.

Il titolo allude proprio a questo tendere ad un sistema di valori, sempre più immateriali e irraggiungibili, un’allegorica visione di un sogno fallito come la definisce de Vries. Quell’impossibilità, che diventa anche possibilità, di andare oltre pur restando ancorati all’imprescindibile presente.

Eppure forse proprio il presente appare come l’unico valore autentico, nella sua transitorietà.

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