Turbolenze al Museo Pecci di Milano

di Redazione Commenta

Il Museo Pecci Milano presenta dal 9 marzo al 14 aprile 2012 un progetto espositivo inedito che mutua dalla fisica l’identificazione di moti disordinati, irregolari e apparentemente caotici, fuori regola, raccogliendo insieme varie esperienze artistiche contemporanee i cui esiti assumono forma di TURBOLENZE, elaborate da artisti o gruppi di artisti di diversa provenienza (Austria, Brasile, Giappone, Italia, Russia, USA).

La selezione di opere proposte dalla collezione del museo, acquisite nell’arco di vent’anni di attività espositiva, rispecchia lo stato di inquietudine e agitazione economica, politica e sociale in cui stiamo vivendo e offre al visitatore esempi di interpretazione e rappresentazione di fenomeni e dinamiche che governano la nostra epoca. La mostra, come un improvviso annuncio di volo, invita il pubblico ad “allacciare le cinture di sicurezza” e seguire con attenzione le fluttuazioni e gli scossoni impressi da queste opere alla normale percezione della realtà.

Valie Export (Linz, Austria, 1940; vive e lavora a Vienna)
Lo pseudonimo scelto alla fine degli anni Sessanta da Waltraud Höllinger, per contestare la propria condizione di donna all’interno di una società patriarcale e oppressiva, afferma con un atto, tanto politico quanto estetico, la propria volontà di autodeterminazione: essere artefice di sé stessa. “Morte del padre. Nascita dell’autrice. Sarebbe Valie (per femminilità) + Export (per marketing)”. L’artista utilizza una popolare marca di sigarette del suo paese, Smart Export, per imporre la propria autorappresentazione ribaltando la tradizionale concezione della donna come “oggetto” in quella autoimposta di marchio originale, indipendente. Assumendo una posa virile con la sigaretta in bocca, nello stile di Humphrey Bogart, Marlon Brando o James Dean, si appropria del ruolo predominante abitualmente attribuito al divo maschile, il protagonista principale nella finzione come nella realtà, sostituendo al modello classico di mascolinità (“umanità”) quello rivoluzionario di menschenfrauen (“donnità”).

Elena Berriolo (Savona, 1959; vive e lavora a New York)
Elena Berriolo ha disegnato un corpo nudo femminile su una tenda che allude a una quotidianità, a una familiarità benevola, svelando tuttavia l’esistenza di un’inevitabile trappola esibizionistica e voyeuristica. In questa ostentazione apparentemente innocente si nasconde una sottile violenza: il corpo quasi inerte della donna con le braccia alzate e le gambe aperte simula la posa di una fanciulla sull’altalena, evocando anche la purezza e la sicurezza di una santa con l’aureola, in realtà ci aggredisce con la forza e la pienezza della sua sessualità dichiarata. Anziché attendere passivamente di essere penetrata dal nostro sguardo, si fa avanti e ci costringe a prendere coscienza della nostra tensione interna di fronte a un corpo che si mostra nella sua nudità esplicita e irriverente.

Lucia Marcucci (Firenze, 1934; vive e lavora a Firenze)
Lucia Marcucci è una pioniera della neoavanguardia poetico-visiva attiva dagli anni Sessanta. L’artista manipola il linguaggio dell’informazione testuale e inserisce nelle sue opere contenuti politici e sociali per denunciare situazioni critiche della società contemporanea, come l’uso incessante di strumenti pensati e prodotti per L’offesa e la distruzione, componendo un’opera manifesto che allarga i codici espressivi dell’arte alla comunicazione di massa e a forme di coscienza e resistenza civile. Tagli e strappi sottolineano la violenza e corrosività delle tematiche esposte.

Erwin Wurm (Bruck/Mur, Austria, 1954; vive e lavora a Vienna)
Wurm utilizza il corpo umano come elemento base della scultura, della sua essenza di spazio occupato da una massa, per dare vita ad azioni di sapore grottesco trasformate in scatti fotografici del momento esatto in cui avvengono (One Minute Sculptures). A queste si associa anche l’opera Two ways of carrying a bomb. Instructions to be politically incorrect (2002), parodia della paranoia securitaria diffusa dopo l’11 settembre 2001, secondo cui la doppia figura speculare di un uomo qualunque che riporta vistose quanto inverosimili protuberanze sul bacino, davanti e dietro, potrebbe essere interpretata come “politicamente scorretta” o addirittura come fisicamente sospetta.

Flatz (Dornbirn, Austria, 1952; vive e lavora a Monaco di Baviera)
L’artista si autorappresenta secondo l’iconografia del reduce di guerra, resa senza tempo dal bianco e nero virato della fotografia e da una luce teatrale che lo fa emergere dalle tenebre. L’immagine del ferito accigliato e in posa determinata, sprezzante del dolore e della sua stessa nudità, affronta lo spettatore anziché invocarne la compassione, sottolineando l’ineluttabilità della violenza come parte integrante dell’esistenza umana. Elementi come il Rolex al polso, il codice a barre tatuato sul braccio o l’anello d’oro infilato sul pene rivelano l’appartenenza del corpo all’odierna società dei consumi.

Botto&Bruno (Torino, 1963 e 1966; vivono e lavorano a Torino)
Botto & Bruno riprendono una battaglia a colpi di scatole di cartone improvvisata da bambini di strada, attori inconsapevoli che si affrontano e si scontrano senza infierire tra loro. Sono figure senza storia, presentate in un video bianco e nero rallentato accompagnato da un crescendo musicale hardcore (Declino, Eresia, 1984), che si conclude in urlo liberatorio e in un calcio metaforico al mondo dei consumi e dei rifiuti prodotto dagli adulti. L’opera rappresenta una rivolta immaginaria che trasforma un angolo di periferia urbana nel terreno ideale per il gioco e per la riscoperta della dimensione innocente dell’infanzia.

Marcos Chaves (Rio de Janeiro, Brasile, 1961; vive e lavora a Rio)
Marcos Chaves riprende nelle fotografie della serie Burracos (buchi) alcuni assemblaggi spontanei costruiti per indicare la presenza di grosse falle nelle strade, interventi temporanei che simulano segnali urbani concepiti per esorcizzare il pericolo e ironizzare sull’assenza di manutenzione stradale. Fissandoli in immagini, Chaves li sospende nel tempo permanente delle opere d’arte trasformandoli in monumenti di creatività popolare. Il lavoro dell’artista brasiliano, contaminato e confuso con le dinamiche del quotidiano, ribalta il concetto negativo di “buco”, vuoto o mancanza in quello positivo di apertura, spazio di immaginazione e invenzione.

Vik Muniz (San Paolo, Brasile, 1961; vive e lavora a New York)
Vik Muniz riconfigura un grosso cubo d’acciaio inox, forma elementare di costruzione, contenitore o supporto solido, alterandolo vistosamente rispetto alla sua condizione abituale, sovvertendone brutalmente l’ordine prestabilito con un intervento “traumatico” che lo fa apparire soffice, fragile e instabile. La trasformazione subita dal cubo è fissata nell’evidenza fisica e nella registrazione sonora dei colpi inferti (per sottolineare l’aspetto distruttivo dell’opera, ribaltando la concettualità del famoso Box with the sound of its own making di Robert Morris, del 1961), come pure nella presenza inquietante della spranga usata per colpirlo. La violenza evocata nell’opera mina le certezze e i riferimenti su cui si basano le nostre conoscenze.

Nobuyoshi Araki (Tokyo, Giappone, 1940; vive e lavora a Tokyo)
Nella primavera del 2000, in occasione della sua personale al Centro Pecci di Prato, Araki ha compiuto il suo primo Viaggio in Italia e realizzato alcune serie fotografiche raccolte nella collezione del museo. In esse si ritrova il linguaggio diretto, privo di retorica e soprattutto di censure del fotografo giapponese, capace di riflettere continuamente la realtà che lo circonda riproducendola ossessivamente come una propria estensione immaginativa. L’obiettivo fotografico si trasforma in una vera e propria emanazione del corpo dell’autore, istintivamente rivolto agli elementi e ai simboli della bellezza, della sensualità, della natura, perennemente occupato nel rapporto fra il proprio “io” (spesso autorappresentato) e le persone incontrate o gli oggetti trovati. Esplorando il territorio segreto dei propri sentimenti, così come la vita pulsante delle città, Araki divora la realtà senza cedere mai alla volgarità o al divertimento voyeuristico, nel tentativo di avvicinarsi al mistero e allo stupore dell’esistenza umana.

Dmitri Gutov (Mosca, Russia, 1960; vive e lavora a Mosca)
Radek Community (gruppo formato nel 1997; vivono e lavorano a Mosca)
“Dima” Gutov ha realizzato la prima versione video dell’azione compiuta a Mosca dai giovani artisti di Radek Community, catturando una folla inconsapevole nella simulazione di una dimostrazione artistica pubblica che rivela e nega se stessa, dadaisticamente, mentre si compie. Ad un incrocio pedonale gli artisti si inseriscono tra la folla che attraversa la strada innalzando striscioni con slogan di sapore assurdo e anarchico. L’opera rappresenta, attraverso le immagini, il tentativo improbabile di un’esperienza collettiva autentica.

Olga Kisseleva (Pietroburgo, Russia, 1965; vive e lavora a Parigi)
“Il progetto (In)visible di Olga Kisseleva affronta il tema dei conflitti e delle tensioni innescate dalla nuova spartizione del mondo. Le fotografie scattate durante manifestazioni di protesta sono il contrappeso alle mappe animate che rappresentano lo stato attuale delle conquiste. Queste immagini sono stampate in bianco e nero e ne i simboli ne i testi sono leggibili. Malgrado le situazioni che stanno dietro alle manifestazioni documentate siano differenti, nelle immagini si vede la stessa cosa: gente che non accetta tali spartizioni.” (Viktor Misiano, in Progressive Nostalgia, Centro Pecci, Prato 2007)

Anatoly Osmolovsky (Mosca, 1969; vive e lavora a Mosca)
“Per l’avanguardia russa degli anni dieci e venti Majakovski fu una figura eroica: quando le autorità sovietiche eressero il monumento, negli anni cinquanta, fu come se lo avessero dichiarato santo della Rivoluzione. Nella Russia criminal-liberale degli anni Novanta questo travisamento divenne palese. Osmolovsky ha riempito di nuovo significato storico lo spazio svuotato di tali commemorazioni. Per gli artisti della nuova generazione, che hanno superato la tradizione totalitaria, la memoria non attiene alla venerazione dei monumenti. Essa vive in concrete azioni sociali che puntano l’attenzione sull’amnesia del potere invariabile.” (Constantin Bokhorov, Majakovski-Osmolovsky, in Documenta 12, Kassel, 2007)

Martha Colburn (Pennsylvania, USA, 1971; vive e lavora a New York)
Martha Colburn esplora l’idea attuale di bellezza, l’ossessione per lo spettacolo, la compulsione all’autorappresentazione e all’autodistruzione con un collage di azioni dal vivo e animazioni liriche, in un film proiettato nel 2005 al Film Festival di Cannes e alla mostra Territoria (Prato e provincia), presentato nel 2006 alla Whitney Biennial di New York e nel 2001 alla rassegna Expanded Video al Maxxi di Roma. Notizie e immagini delle forze armate USA, a cui sono offerti interventi di chirurgia estetica gratuiti, sono messe a confronto dall’artista con la qualità immortale della grande pittura, montando filmati d’attualità e dipinti d’animazione con la tecnica del fotogramma documentario, in una sequenza fortemente satirica e carica di trasfigurazioni della realtà.

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