Un David Hockney da record zittisce Damien Hirst ed i detrattori della pittura


La recente polemica tra David Hockney e Damien Hirst è apparsa su tutte le prime pagine dei magazine d’arte contemporanea del globo. In realtà gli attacchi sono partiti da Hockney ed Hirst non ha commentato. Tutto è iniziato quando Hirst ha dichiarato di aver prodotto personalmente solo i primi spot paintings ed aver in seguito passato la palla ai suoi assistenti: “Gli spot paintings mi annoiano e poi i miei assistenti li fanno meglio di me. Senza di loro sarei proprio finito” aveva dichiarato il folletto della Young British Artists.

Udendo tali parole il buon vecchio Hockney è montato su tutte le furie ed ha inveito contro il suo collega, affermando che un vero artista lavora con le proprie mani ai dipinti: “ La factory di Damien Hirst è letteralmente un insulto alla produzione artistica. Un vero artista produce le opere di suo pugno” ha dichiarato Hockney e non pago di ciò ha fatto scrivere sulle locandine della sua mostra alla Royal Academy di Londra il messaggio: “Tutte le opere sono state create dall’artista stesso”.

Un documentario manda Banksy su tutte le furie

Ed alla fine anche il fuorilegge Banksy ha deciso di ricorrere alla legge. Certo da un artista che cela la propria identità, andando in giro a compiere le sue azioni prevalentemente su proprietà pubbliche o private, non ci si aspetterebbe un comportamento per così dire “istituzionale” ma stavolta c’è di mezzo l’orgoglio personale e la salute di un malcapitato collega.

La pietra dello scandalo è Graffiti Wars, un documentario sulla ormai celebre guerra tra Banksy e King Robbo, andato in onda su Channel 4 la settimana scorsa. Il documentario ha posto l’accento sulla rivalità fra i due artisti, facendo in qualche modo credere che la colpa dell’infortunio alla testa che ha messo K.O. Robbo sia attribuibile a Banksy: “E’ iniziata come una banale scaramuccia ma è si è trasformata in una battaglia al vetriolo” così la voce narrante ha definito l’affaire Banksy-Robbo.

La guerra urbana di Jennifer Karady

Il maggiore dell’esercito Americano Elizabeth A. Condon è stata in missione in Iraq per parecchio tempo. Durante questo periodo il maggiore ha visto ogni sorta di orrore che la follia dell’uomo possa produrre, dai corpi morti in mezzo alla strada fino a bambini crivellati dai proiettili. Eppure un momento di estrema dolcezza ha colpito i sensi del maggiore. Il militare ha infatti soccorso una giovane donna irachena che aveva una grande ferita infetta sul ventre, causata da un taglio cesareo amatoriale: “Tutte le altre donne nella stanza si sono avvicinate e mi hanno baciata sulla guancia. Non so se quella donna sia sopravvissuta ma è stata un’esperienza molto toccante” ha dichiarato il militare.

Le tragedie della guerra moderna, ma anche i momenti toccanti sono attualmente in mostra alla SF Camerawork di San Francisco (dal 6 maggio al 7 agosto 2010) che ha organizzato l’evento In Country: Soldiers Stories from Iraq and Afghanistan, personale di fotografia dedicata al talento di Jennifer Karady.

La maledizione del petrolio vista da Ed Kashi

Violenza, corruzione, Guerra. La nuova serie del fotogiornalista Ed Kashi punta il dito sul devastante effetto della produzione del petrolio. Si chiama Curse of Black Gold, La maledizione dell’oro nero e suona come un vecchio racconto d’avventura di by Edgar Rice Burroughs o Henry Rider Haggard. Ed invece è il titolo di un nuovo ed epico reportage di Ed Kashi che documenta gli effetti di 50 anni di produzione del petrolio in Africa.

Effettivamente le storie di Kashi hanno tutto quello che un buon romanzo d’avventura dovrebbe avere: intrighi politici, guerre fra tribù, disastri ecologici,corruzione su vasta scala, violenze e rapimenti. Il set di questa trama è il vasto delta del Niger, 28.000 metri quadrati di foresta pluviale e paludi di mangrovie. Peccato che le immagini documentate da Kashi non sono frutto dell’ingegno letterario ma della nuda e cruda realtà. Il fotografo è già avvezzo al pericolo dato che nel 2006 è stato arrestato dai militari mentre scattava alcune immagini della regione del Nembe ed è stato trattenuto illegalmente in prigione per 4 giorni.

Quando il fotoreportage diventa pornografia della sofferenza

Che comportamento assumete di fronte a fotoreportages che mostrano immagini reali al limite dell’horror puro? Tra immagini di guerra, terremoti, massacri ed incidenti stradali siamo certi che molte persone sono solite distogliere lo sguardo scioccate. Come siamo sicuri che in un secondo momento le stesse persone torneranno a guardare attentamente le disturbanti scene che sfidano ognuno di noi a divenire testimone/voyeur di agghiaccianti realtà.

“Afferrare la morte ed imbalsamarla per sempre è una cosa che solamente le macchine fotografiche possono fare e le fotografie scattate sul campo nel momento della morte (o poco prima di esso) sono le più celebri e le più richieste, basti pensare al miliziano morente di Robert Capa”, scrive Susan Sontag nel suo libro Regarding the Pain of The Others (guardare il dolore degli altri).  Questo significa che le foto sadicamente reali generano in molte persone una sorta di voyeurismo e questo i mass media lo sanno, per questo si ostinano  a farne largo uso.

Tra la galleria di foto dei vincitori del World Press Photo of The Year presente sul sito è possibile visionare una serie di 4 immagini intitolata Stoned to Death, Somalia, 13 December (Ucciso a sassate, Somalia, 13 Dicembre) del fotografo dell’associated press Farah Abdl Warsameh. Quelle immagini sono ancor più scioccanti di qualsiasi altro reportage di guerra. La prima foto mostra la vittima sotterrata fino al collo mentre la seconda mostra un gruppo di uomini che gettano pietre sulla sua testa. La terza foto mostra il prigioniero totalmente insanguinato che viene dissotterrato ed infine l’ultima mostra il povero corpo senza vita martoriato dal gruppo di uomini che così completa il macabro rituale di morte.