Postmodernismo – Stile e sovversione 1970-1990 al Mart di Rovereto

di Redazione Commenta

Pare sia già tempo di trovare una nuova etichetta per definire i nostri tempi, il Postmodernismo finiva quando io andavo per i sei anni, non me ne accorsi, ero troppo giovane per capirci qualcosa. “Postmodernismo. Stile e sovversione 1970 – 1990” così viene sottotitolata la mostra approdata al Mart di Rovereto dopo la sua nascita al Victoria and Albert Museum di Londra. Un’altra collaborazione importate portata a segno dall’ormai lontana Gabriella Belli, in favore di Cristiana Collu, e ci ricorda che fare squadra a livello internazionale si può, anzi si deve.

«Per lo storico Charles Jenks il modernismo finì alle 15.32 del 15 marzo 1972 quando il complesso residenziale di Pruitt-Igoe di St. Louis, Missouri, venne fatto saltare in aria con la dinamite.» Così inizia la mostra: con la fine dell’idealismo modernista, in questo caso incarnato da un insieme di enormi casermoni, di quelli che ancora oggi infestano le periferia di qualsiasi città nostrana, simbolo di rigore e ingegneria-sociale, buttati giù come birilli per lasciar spazio al nuovo, sfavillante post-modernismo. In altre parole la distruzione di qualsiasi idea di purezza, pulizia, forma e funzione in favore della libertà di mescolare tutto assieme per il gusto di farlo. Sia ben chiaro il ribaltamento di poteri fu determinato da un fallimento di un’idea come quella modernista.

L’esposizione permette un viaggio nella storia recente che può sembrare troppo ricco di elementi, lo è, ma racconta esattamente cosa sono stati quei trent’anni alla velocità della luce in cui mode e tendenze si evolvevano quotidianamente, menti geniali sperimentavano negli atelier e l’underground ha avuto il suo momento di rivincita. Tanto è successo in quel periodo che effettivamente stiamo vivendo di rendita da vent’anni ormai e nulla come l’effetto revival uccide la fantasia. La formula è complessa perché si tratta di una mostra che unisce tutte le espressioni artistiche sotto forma di ricerca sociologica, d’altronde l’avanguardia è lo specchio bello della società.

Si parte così dall’architettura, collettivi irriverenti come lo Studio Memphis guidato da Ettore Sottsass, ma anche Alessandro Mendini che nel 1974 bruciò una sedia da lui progettata spiegando che così facendo passava “da oggetto a reliquia, da materia a ricordo”. Architettura che deborda nel design e nella vita quotidiana, i riferimenti culturali non si dividono più in alti e bassi e fashion designer come Vivienne Westwood e Rei Kawakubo disegnano costumi di moda ad alto tasso autobiografico.

I confini tra ambiti e generi sono scomparsi, nell’arte sta nascendo il Pop con precursori come Schifano e Rauscehmberg; nella musica è tempo di performance irriverenti, il palco lo calca Grace Jones. E nel rompere le regole si arriva all’eccesso degli anni Ottanta dove tutto deve luccira, tutto è denaro e status. Jeff Koons, vecchia volpe ed ex bancario, disse: “Volevo dire alla borghesia che abbracciasse ciò che le piace, le cose che le corrispondono”, tutto era diventato immagine.
La pubblicità ha il suo momento di boom, nasce MTV e una generazione usa e getta. Intanto Karl Lagerfeld disegna la nuova divisa Chanel e essere individui singoli, riconoscibili come tali, diventa centrale e il proprio stile è quello che permette di comunicare la propria unicità.

Eppure passare da un estremo all’altro non porta buoni risultati e così il dubbio che la festa non potesse durare troppo restava in agguato, Jenny Holtzer sintetizzò dubbi e paure in una frase scritta su un cartellone pubblicitario su Times square “Protect me from what I want – Proteggimi da quello che desidero”, era il 1985. Sul finire degli anni dei glitter e della disco music ci si rese conto che l’idea stessa di postmodernismo era stata consumata troppo in fretta, non esisteva nessuna lettura critica, nessuno schema e alla lunga il modello non funzionava, ma il tentativo di recuperare una teoria postuma che tranquillizzasse il mercato non era semplice.
È un finale dolce-amaro scivolando nell’incertezza dei Novanta, sullo sfondo “Bizzarre Love Triangle” dei New Order, il video nel 1986 fu diretto da Robert Longo e ci interrogano sul nostro oggi: “Why can’t we be ourselves like we were yesterday? – Perché non possiamo essere noi stessi come lo eravamo ieri?”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato.

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>