Giovedì difesa: The tunnel

Buone notizie dall’Australia. Una bella operazione a basso costo, finanziata con internet e distribuita gratis su bit torrent. Il film del regista Carlo Ledesma per gli amanti dell’horror è da non perdere. Segue la scia, a me molto cara, dei mockumentary. Film che si fingono documetario.

Il genere horror ha infatti di recente tirato fuori molti bei lavori, anche a basso budget, il cui valore aggiunto è proprio nella finzione, portata all’estremo, che l’evento pauroso raccontato sia davvero accaduto e che queste siano le prove. In questo caso una troupe televisiva le cui interviste accompagnano le riprese da loro girate sui “paurosi eventi” si era intestardita in indagini alla ricerca della notizia relativa a misteriose sparizioni nei sotterranei di Sidney.

Quando l’arte italiana si trasforma in un “tour all’interno del cervello di Silvio Berlusconi”


Lo stato di profonda consunzione in cui versa la cultura italiana non mi stupisce più di tanto ma il bello è che le cose in questi ultimi tempi sono decisamente peggiorate. Fino a poco tempo fa le brutte figure restavano in famiglia, oggi grazie a Vittorio Sgarbi, all’ex ministro Sandro Bondi che ha caldeggiato la sua nomina alla curatela del Padiglione Italia ed al presidente della Biennale Paolo Baratta che lo ha praticamente appoggiato in tutto e per tutto (richiamandolo con lettere profumate ad ogni suo finto tentativo di rinunciare le dimissioni), l’arte contemporanea italiana è divenuta lo zimbello di tutto il mondo.

Proprio oggi Adrian Searle del Guardian ha pubblicato un articolo che suona più o meno così: “Il Padiglione Italia, un padiglione evitato dalle persone sane e visitato solo da quelli che ci sono capitati per caso. Noiosamente provocatoria, la mostra di Sgarbi è piena di cose orribili e kitsch, con un allestimento che fa impallidire. Con i suoi cliché ed il suo populismo-spazzatura il Padiglione Italia è come un tour all’interno del cervello di Silvio Berlusconi”.

Pillole di Biennale – 01 La partenza

Come sempre il bivio è uno solo: hai soldi-fortuna-possibilità per stare a Venezia almeno una decina di giorni oppure no? Ovviamente io no e quindi ecco il mio frenetico racconto di una tre giorni faticossissima, ovvero l’esperienza Biennale come viene vissuta dalla maggior parte dei comuni mortali che si trascineranno in laguna nei prossimi mesi. Per la precisione ho transitato sulle acque per due giornate e mezza e ancora ho la sensazione sgradevole di essere sul vaporetto che sobbalza tra le onde e negli occhi le immagini si sovrappongono e le domande si fanno incessanti.

Come ogni brava turista aderente ai cliché ho fatto tante foto, ma solo a quello che volevo ricordare, di conseguenza il mio racconto di viaggio sarà più simile al diario segreto di una sedicenne piuttosto che un racconto giornalistico serio ed equilibrato, suvvia di quelli ne trovate a bizzeffe. Mi lascerò tuttavia la possibilità di utilizzare foto non mie li dove sarà necessario.

Bice Curiger poco coraggiosa? Tutta colpa dell’Industrialminimalism

klara liden

Il Padiglione Minestrone Italia di Vittorio Sgarbi è stato accusato da più parti di aver sciorinato una sequela di artisti fuori da ogni sistema canonico. Tra pittori della domenica e qualche povero “buon nome” capitato per sbaglio negli inferi di un allestimento surreale, il Vittorione Nazionale è riuscito a collezionare una sfilza di critiche negative che hanno praticamente affossato definitivamente la nostra arte contemporanea, già reduce da un’edizione 2009 curata da Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli non proprio all’altezza delle aspettative.

Dall’altra parte della barricata si stagliano le ILLUMInazioni di Bice Curiger, alcuni critici e riviste di settore hanno definito la mostra della svizzera come una serie di scelte di sistema, troppo simili alle precedenti selezioni dei predecessori Maria Corral e Rosa Martinez (2005), Robert Storr (2007) e Daniel Birnbaum (2009). L’urgenza di rispettare una certa metodologia a volte può costringere all’errore ma è lapalissiano che tra gli orrori di Sgarbi e le misurate emozioni della Curiger esistono dei divari incolmabili che è inutile elencare in questa sede.

Allora & Calzadilla: amore, odio ed una punta di Cattelan

Ruth Fremson/The New York Times

Questa edizione della Biennale Di Venezia sarà sicuramente ricordata per le eccentriche e chiacchierate opere del duo Allora & Calzadilla. I due artisti di Porto Rico hanno catturato (ed in certi casi indispettito) l’attenzione generale con il loro tank rovesciato a far da contrappunto alla sobria architettura del padiglione degli Stati Uniti. Polemica sulle politiche guerrafondaie, crisi annunciata di un sistema ormai allo sbando, le opere dei Allora & Calzadilla hanno molteplici significati.

Senza dubbio fondamentale è stata la partecipazione di un nutrito gruppo di atleti statunitensi al folle progetto del duo, il campione olimpico Dan O’Brien ha infatti corso sul tapis roulant posto sui cingoli del carro rovesciato, mentre all’interno del padiglione altri ginnasti hanno eseguito le loro figure sopra sedili di aeroplano.

Giovedì difesa: Source code e i figli d’arte

Purtroppo nel mondo del cinema mi sono abituato a pensare che i figli d’arte non siano molto capaci a far quasi nulla. Mi rendo invece conto che, con poche eccezioni, sto parlando dell’Italia. Questo luogo comune non trova riscontro (suppongo anche li con eccezioni che non conosco) in quel che mi appare dal mondo cinematografico americano e britannico. Mi soffermo infatti su alcuni nuovi registi.

Dunque dirò che mi piacciono tutti i film senza eccezione di Sofia Coppola. Trovo che Somewhere abbia vinto meritatamente a Venezia e ringrazio la competenza di Tarantino che ha commentato con l’unica critica possibile sul film, ovvero che dopo averlo visto continui a vedere altre cose ma non ti esce mai dalla mente. Del film di Sofia Coppola amo la camera lenta, l’indugiare, lo stesso indugiare che crea lo straniamento di Bill Murray in Lost in Translation, e poi i sentimenti che sfuggono, non sono detti, allora scappano, volano via. Ci vedo abbastanza originalità e non troppi legami apparenti con la regia del padre, di cui pure pare conoscerne una certa poesia.

Giovedì difesa: Dexter e siamo a 5

Ci sono molti modi di intendere una serie tv. Ci sono le serie che non hanno mai fine e quelle che terminano la mini trama all’interno dell’episodio sempre. Accade così che lo spettatore possa accendere la tv in un qualsiasi giorno e guardarsi una puntata, che sia un indagine, un episodio di vita familiare, o altro.

La mia modalità preferita però è quella rispettata da Dexter. Ogni serie si conclude nell’ultima puntata. Dunque le 5 serie di Dexter sono 5 lunghissimi film. I ritmi sono sempre assolutamente serrati, le indagini sono sempre sul filo teso, si sta sull’episodio, sul dettaglio da svelare o da far sparire.

Sapere dove siamo aiuta? – Officina Italia 2 – Nuova creatività italiana (Bologna, Gambettola)

All’età di settantasei anni Renato Barilli non è ancora stanco di mettere steccati intorno all’arte. Da giovane si spinse in grosse indagini decennali, come le mostre Anniottanta e Anninovanta, e poi optò per le più snelle biennali inaugurate con Officina Italia nel lontano 1997, cui seguirono Officina Europa, 1999, Officina America, 2002 e Officina Asia nel 2004. Tutte le manifestazioni erano contemporaneamente dimostrazioni d’affetta verso l’arte e verso la propria regione, l’Emilia-Romagna, da sempre parterre di ogni evento e soprattutto sostenitrice economica fondamentale.

Dopo più di dieci anni ritorna ad occuparsi di Italia con Officina Italia 2 – Nuova creatività italiana ed è chiaro fin da subito che l’età non ha domato il suo spirito battagliero. Pochi giorni fa, inaugurando la conferenza stampa, ha manifestato ancora una volta (v. L’arte non è cosa nostra – Pierluigi Panza – 28/05/11 – Corriere della Sera) il suo disprezzo verso l’operato sgarbiano a Venezia elevando la propria mostra a legittimo padiglione nazionale e e di sicuro interesse rispetto quel baraccone che ci accoglierà il laguna.

Non è nel mio interesse approfondire qui il dibattito sul Padiglione Italia, ne tanto meno aprirne altri, fatemi dire però che questo proliferare di iniziative legate ai giovani artisti italiani è un segnale positivo di interesse verso una scena prolifica e viva come l’arte degli italiani, ma è un terreno scosceso in cui facilmente si cade in approssimazioni o ci si fa prendere da facili entusiasmi. Inoltre diffido sempre di chi crede di avere la verità in tasca. Per questo motivo spero di poter visitare la mostra entro il 3 luglio, data di chiusura, per poter analizzare più a fondo la proposta al pubblico di questa Officina Italia 2.

Il disegno come pratica artistica: Marco Bongiorni e Sergio Breviario per Marie-Laure Fleisch

Marco Bongiorni, Selfportrait on Glass, 2010, inchiostro su vetro, 25x29 cm. Copyright: 2010, Marco Bongiorni.

Una delle caratteristiche che contraddistinguono l’arte contemporanea, ma che forse è sempre stata insita nella natura stessa della pratica artistica, è il dibattito tra due differenti approcci. Se da un lato è l’adorniana forma il luogo di convergenza dell’esperienza artistica, dall’altro, essa è intesa come mezzo, strumento sensibile  e rivelatore, che solo “schiantandosi” contro il proprio limite giunge a proiettarsi verso la meta delle possibilità. Drawings by two, a cura di Ludovico Pratesi presso la galleria Galleria Marie-Laure Fleisch di Roma, ci offre l’occasione di esperire dei due differenti approcci attraverso le ricerche artistiche di Marco Bongiorni e Sergio Breviario entrambe declinate attraverso l’utilizzo ossessivo del segno grafico.

Per Bongiorni, la cui ricerca verte in particolar modo sui tratti distintivi del suo volto, il segno è qualcosa che si da nel tempo, che è soggetto alle modificazioni sensibile e dunque che non può rimandare a una verità assoluta se non quella che fa riferimento alla forma, alla sua compiutezza intrinseca. Non a caso l’artista sceglie di riprendere le espressioni del suo volto rendendosi conto che ogni volta si rivelano alla sua mano esperta come qualcosa di nuovo, tanto più se relazionate alla propria identità.

Se sei giovane, ti tirano le pietre – Biennale Giovani Monza 2011

La Biennale Giovani Monza nacque negli anni Cinquanta, ma è difficile trovare informazioni in rete riguardo le sue evoluzioni negli anni, quel che sappiamo è che dal 2005 ha ripreso la cadenza regolare e che quindi questa è una quarta edizione per modo di dire. Dentro il Serrone del Palazzo Reale di Monza, affacciato sullo splendido giardino delle rose, troviamo trenta opere per trenta artisti under trentacinque, (scusate lo scioglilingua). La formula adottata per scegliere in nomi dei partecipanti è quella che va di moda: nominare qualcuno che proponga i nomi e, come ha giustamente detto il direttore organizzativo Daniele Astrologo Abadal, anche questo è un modo per esporre il proprio punto di vista, giacché ogni curatore o critico incarnerà una certa visione dell’arte contemporanea.

Ed ecco quindi i cinque prescelti: Marco Bazzini, direttore del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato, Luca Cerizza, critico e curatore attivo tra Milano e Berlino, Yunkyoung Kim, direttrice del Mongin Art Center di Seoul, Franziska Nori, direttrice del Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Firenze, Stefano Questioli, consulente artistico presso l’Istituto Italiano di Cultura di Chicago. Personalità e storie differenti che, coerentemente, hanno scelto secondo parametri anche diametralmente opposti, avendo come unico vincolo l’età e l’italianità. Ad eccezione fatta per i sei artisti invitati da  Yunkyoung Kim a rappresentare la giovane arte sud-coreana, nazione ospite della rassegna.

Avere una project room – parte 1 – Unosunove Milano

Su Globartmag si è parlato spesso di Project Room, soprattutto auspicando da parte di realtà istituzionali, come i musei d’arte moderna e contemporanea, una scoperta e un buon utilizzo di uno strumento utile alla promozione della giovane arte e alla sperimentazione. Per quello che poco che ho incontrato nel mio peregrinare nella città di Milano esistono diverse gallerie d’arte che propongono project room, ma difficilmente mi hanno colpito i contenuti espositivi. Non è facile gestire un progetto per uno spazio del genere, basti pensare che pone ai galleristi tutte le problematiche di una mostra, anche dal punto di vista economico, ma con spazi ristretti e poco interesse mediatico attorno al nome proposto. Inoltre spesso può esistere un rapporto conflittuale con la mostra vera e propria proposta in galleria.

Unosunove è una galleria romana che ha una project room a Milano da meno di un anno, questione di strategia? Certamente, ma non solo, perché la proposta fatta in via Broletto 26 è variegata e intrigante con nomi di artisti internazionali davvero giovani e nuovi sul mercato. Una sfida non facile su una scena come quella milanese in cui i soliti vecchi e potenti nomi fanno da padroni e le realtà piccole nascono e muoiono con velocità. Fino al 11 giugno si può visitare la mostra di Marysia Gacek, artista polacca nata nel 1986. Incuriosita sono andata a vedere cosa avesse prodotto questa venticinquenne nomade, vive a New York dove ha studiato, e devo ammettere che non solo mi ha trasmesso quella sensazione di freschezza che ci si aspetta dalla giovinezza, e spesso non si riceve, ma è riuscita senza dubbio a ben incarnare il concetto di site-specific senza svilire le singole opere che mantengono intatta una loro autonomia.

Giovedì difesa: Red

Red è un film del regista Robert Schwentke di cui non conoso troppo le gesta. È tratto da un fumetto di Warren Ellis e Cully Hammer. Il protagonista, l’agente in pensione Frank Moses, interpretato da Bruce Willis è, a mio avviso, la cosa migliore. Anche il cast è davvero notevole: Mary-Louise Parker, Helen Mirren, John Malkovich, Karl Urban, Richard Dreyfus, Brian Cox e Morgan Freeman tra gli attori.

L’operazione di trasposizione dal fumetto ha momenti buoni e molto divertenti. In effetti sono un pò indeciso sul giudizio, a causa di quanto succede al livello di ritmo del film. L’ironico messaggio sotteso su quanto sia più forte la “vecchia scuola” poliziesca, (si legga anche i vecchi film polizieschi, o i vecchi attori), trend che ha il suo momento più alto in Die Hard 4 e ne I mercenari, qui occupa quasi tutto il tema.

Evitiamo sciocchi e scontati giochi di parole: MIA Fair, la prima fiera di fotografia a Milano

MIA è una neonata che ha fatto parlar di se fin dai primi vagiti. Effettivamente il fatto che nel 2011 in Italia non avessimo una vera e propria fiera sulla fotografia artistica può far notizia. Si potrebbe ribattere, così per dire, che in ogni fiera d’arte sono presenti artisti che utilizzano il mezzo fotografico e forse una fiera solo per la fotografia la ghettizza piuttosto che elevarla. Un altro elemento su cui si è discusso è che a Milano pare facciano una fiera al mese: è un disperdere denaro e anche collezionisti, che mica possono venire a Milano ogni due per tre. All’estero ha preso piede da tempo la mania degli agglomerati di fiere, una importante e tante piccole intorno, io da questo punto di vista preferisco avere eventi separati, ma forse lo dico solo perché non sono collezionista e vivo a Milano.

Insomma dopo tanto clamore MIA è arrivata, e passata, e non potevo esimermi dal commentare l’evento. Per quanto la fotografia sia istituzionalizzata come parte dell’arte, in alcune sue forme almeno (oppure, parafrasando Man Ray, quando a farla è un artista), da ormai cent’anni sembra davvero ancora reclusa in una storia a sé. Per questo ben venga MIA a mostrare la forza artistica di tale linguaggio e forse, proprio per questo, mi sento in dovere di dare qualche consiglio per la prossima edizione. Considerando la sede scelta adatta e ben posizionata bisognerà pensare ad una riduzione dei contenuti, che il problema maggiore è quello dello spazio. Stretti corridoi, stretti stand, mancava lo spazio necessario per poter godere delle opere, per non parlare di allestimenti in alcuni casi caotici e in generale della sensazione di trovarsi dentro al Programma Ludovico (la famosa tortura video di Arancia meccanica).

Il cemento della memoria nell’opera di Lukáš Machalický

“Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente, controlla il passato” G. Orwell

Come preannunciato qualche settimana fa, il 18 maggio inaugura il secondo appuntamento mensile del MLAC di Roma. Questa volta tocca a Lukáš Machalický, secondo artista ceco della rassegna Czech Point a cura di Alessandra Troncone, occupare il piano inferiore del museo con un evento intitolato To my left, to my right e che sarà visitabile fino al 27 maggio 2011. Il lavoro di Machalický verte sull’analisi trans-storica degli eventi che hanno caratterizzato la fase del regime comunista nell’ex Cecoslovacchia. Trattandosi di un giovane artista, non ci sorprende il fatto che il punto di vista attraverso cui si dispiega questa analisi sia quello che passa attraverso le dinamiche della memoria. Come facciamo esperienza di questi avvenimenti pur non avendoli vissuti direttamente?

In Grey zone (2010), Lukáš ci presenta una serie di documenti relativi ad atti di contro-spionaggio attuato dai servizi segreti durante il regime. Questi documenti, resi noti successivamente in internet, sono ora visionabili con delle evidenti cancellature in cui vengono occultati i nomi e le referenze dei protagonisti di questi atti. Tale omissione diventa per l’artista mezzo formale il cui profilo costituisce i blocchi di calcestruzzo (materiale tipico delle costruzioni del regime) che l’artista dispone sul tavolo mettendo in risalto la durezza e l’asetticità di un materiale contro cui si scontrano le ambizioni e le aspettative di un’umanità schiacciata sotto il peso di un sistema appiattente e incontrovertibile.