Frederick Sommer, fotografie di un mondo misteriosamente reale

 Un grande maestro, un fotografo innovativo, uno sciamano forse un misitco o un eremita. Questi termini sono forse limitativi per una figura monumentale come quella di Frederick Sommer, artefice di vere e proprie alchimie fotografiche in bianco e nero, dai fotomontaggi, ai soggetti evanescenti fino alle ossa dei coyote ed alle interiora di animali brutalmente fissate sullo sfondo bianco. Sommer era un’autodidatta e la fotografia diurna era la sua pratica preferita, un medium capace di portarlo in molteplici direzioni attraverso le oscure strade del processo creativo.

Nato nel 1905 nel sud dell’Italia e cresciuto in Brasile, Sommer si stabilì nel deserto dell’Arizona all’età di 30 anni e lì rimase fino alla sua morte nel 1999. L’infinita distesa desertica divenne presto il teatro di ogni sua creazione, dalle formazioni rocciose ai cactus, alle ossa scolorite dal sole. Sommers non smise mai di fissare con la sua macchina ogni aspetto della realtà silente che lo circondava, sino a giungere alla completa astrazione. La creatività di Sommers è in continuo equilibrio tra arte e realtà ma non si tratta della stessa ricerca portata avanti dagli artisti Neo-Dada come  Allan Kaprow, Carolee Schneemann, Al Hansen, Alison Knowles o Dick Higgins.

Jonathan Jones: arte alla portata di tutti ma non per tutti

 Girovagando per la rete abbiamo trovato un interessante articolo del nostro amato critico inglese Jonathan Jones che andiamo di seguito a pubblicare nella speranza di generare riflessioni e discussioni:

L’ascesa dell’arte interattiva sembra ancor più marcata in questa nostra era digitale e questa interattività non abbraccia solo i social networks ma si estende anche al mondo reale, catturando sempre più pubblico. Spencer Tunick ed Antony Gormley guidano questa rivoluzione interattiva, uno con i nudi collettivi e l’altro con la sua opera One and Other che ha visto centinaia di persone mettersi in mostra sul quarto plinto di Trafalgar Square.

Alcune forme di interattività fanno bene all’arte ed agli artisti che tramite piattaforme come Facebook o Twitter possono promuovere la loro creatività senza passare attraverso i canonici rituali del mondo dell’arte. Ogni giovane artista può farsi pubblicità mediante canali alternativi e potrebbe anche verificarsi la probabilità di scovare un nuovo genio artistico al di fuori di quelle istituzioni che forzano arte ed artisti a conformarsi alla moda ed al buon gusto generale.

Richard Hambleton una vittima della società dello spettacolo dell’arte

 Per una sera Milano si è trasformata in New York con tanto di lustrini e star dello spettacolo al seguito. Tutto è successo giovedì 25 febbraio al vernissage della mostra dedicata al grande artista Richard Hambleton, ospitato dal Teatro Armani. Tra i 120 ospiti c’erano Eugenia e Stavros Niarchos, Pierre Andrea Casiraghi (figlio della principessa Carolina di Monaco) Dasha Zhukova (fondatrice del nuovo museo Garage di Mosca e fidanzata del magnate Roman Abramovich), Clive Owen, Mario Testino e l’immancabile viveur Lapo Elkann.

Ovviamente va detto che non si è trattato del solito vernissage di arte contemporanea anche perchè non bisogna dimenticare che Hambleton si è isolato completamente dal mondo dell’arte, trincerandosi per anni nella Lower East Side di Manhattan. Il progetto Hambleton è un rilancio ben programmato e sofisticato. Tutto è cominciato quando l’imprenditore australiano Andrew Valmorbida ha conosciuto le opere di Hambleton a casa di Rick Librizzi, noto dealer americano. Nemo, il figlio di Librizzi ha poi accompagnato Valmorbida a casa di Hambleton per farglielo conoscere di persona.

Siam tutti figli di…Achille

 Recessione o non recessione? Difficile a dirsi in un mercato dell’arte dove non esiste una reale piattaforma statistica in grado di quantificare introiti e vendite. Gli unici dati disponibili sono quelli delle aste ma dopo la bolla speculativa e dopo il crollo della Lehman Brothers le quotazioni di molte stars del contemporaneo hanno subito un congruo ridimensionamento. Un valido segno dell’andamento del mercato potrebbe essere però estrapolato dalla resistenza alla crisi che le gallerie private riescono ad opporre.

Nell’autunno del 2008 il celebre critico americano Jerry Saltz predisse che 100 gallerie di New York avrebbero chiuso i battenti di li a pochi mesi, in realtà ad oggi solo 25 dealers sono usciti di scena e la grande mela ha comunque registrato nuove aperture che hanno doppiato le perdite. Ed in Italia il mercato come va, in che modo possiamo analizzarlo? Beh, niente di più difficile. Anche da noi c’è stato un ricambio di gallerie, vi sono state manifestazioni fieristiche che si sono chiuse positivamente ed altre meno. Il Nostro problema però non risiede nella crisi poiché l’oggetto artistico è da considerarsi un bene di lusso e come si sa durante i periodi di recessione le statistiche recitano sempre la stessa litania: “ricchi più ricchi, poveri più poveri”.

Fauxreel, ovvero quando la Street Art si vende al sistema

Da tempo la street art è entrata nei luoghi canonici dell’arte, gallerie e musei (persino in Italia) ospitano sempre più eventi dedicate a questa splendida disciplina artistica di cui molte volte abbiamo parlato fra le nostre pagine, imparando ad ammirare le incursioni di protagonisti internazionali come Banksy, Os Gemeos,Cartrain, Mat Benote e dei talenti nostrani come Sten, Lex, Lucamaleonte, Blu e Tv Boy.

Per questi e tanti altri grandi nomi della street art il passo dalla strada alla galleria d’arte è stato relativamente breve un poco come lo è stato per Keith Haring e Jean-Michel Basquiat. Documentare i progressi della street art organizzando mostre in luoghi istituzionali e quanto altro è un passo dovuto per la storia dell’arte ma è altrettanto importante che i protagonisti di questa disciplina non si vendano completamente al sistema dell’arte snaturando così la freschezza di una creatività nata nelle strade.

Riflessioni sul linguaggio degli anni ’10

Il 2010 per New York, oggi più di ieri, sembra essere l’anno dell’arte contemporanea. I musei della grande mela sono un turbinio di mostre ed eventi artistici che sembrano non finire mai, basti pensare all’attuale mostra di Gabriel Orozco al MoMa, a quella di Roni Horn al Whitney Museum ed a quella di Urs Fischer al New Museum.

Ovviamente questi grandi eventi non hanno mancato di generare commenti positivi e negativi, come la performance di Tino Sehgal attualmente in mostra alla “rotunda” del Guggenheim. Ma al di là dei giudizi personali su ogni singolo artista in mostra va detto che prese d’insieme queste visioni creative, unite ad altri episodi occorsi negli ultimi giorni, mi hanno dato da riflettere sulle ultime tendenze della scena dell’arte contemporanea.

Chris Burden e Gagosian, il re dentro la tenda è completamente nudo

Problema: ci troviamo alla mostra di Chris Burden alla Gagosian Gallery di Roma, (inaugurata il 13 febbraio 2010) con tanto di vips ed iperpresenzialisti della scena dell’arte. Secondo voi è possibile valutare negativamente il lavoro di un monumento della storia dell’arte contemporanea che espone all’interno di un tempio del mercato internazionale?

Soluzione: Si, è possibile e doveroso

Il 19 Novembre del 1971 alle 19:45, Chris Burden ha prodotto una delle opere più sconcertanti della storia dell’arte contemporanea. Si tratta di Shoot, performance in cui l‘artista ha inscenato una fucilazione fondendo l’arte con la realtà e subendo così il lacerante impatto di un proiettile calibro 22 sul suo braccio sinistro. Gli fu chiesto il perchè di tale gesto e Burden rispose semplicemente “Volevo essere preso sul serio circa il mio ruolo di artista“, ed ebbe ragione.  Le performance di Burden hanno sancito un nuovo modello artistico caratterizzato da una crudeltà passiva ed aggressiva in cui l’artista mette in gioco la sua creatività e la sua vita.

La vita di Burden è appesa ad una sottile linea rossa anche in Trans-Fixed, opera del 1974 in cui l’artista si crocifisse sul retro di un maggiolino della Volkswagen con tanto di mani inchiodate. La passività e l’alienazione affiorano nella sua performance Doomed del 1975 al Museum of Contemporary Art di Chicago, in cui l’artista stette immobile sul suolo sotto alcune lastre di vetro per ben 45 ore e 10 minuti. Impossibile riassumere in questa sede l’epica artistica di Burden, filtrata attraverso lenti duchampiane, che nel corso degli anni ha subito una costante evoluzione incrociandosi con land art ed installazioni site-specific.

Appello contro i tagli alle ore di storia dell’arte dalle scuole secondarie

Globartmag pubblica quest’appello lanciato dal curatore d’arte Barbara Collevecchio, il quale invita la popolazione a regire ai tagli sulle ore di storia dell’arte imposti dalla pubblica istruzione, ricordiamo ai nostri lettori che è possibile firmare una petizione contro quest’assurdità. Globartmag è contro ogni decisione atta a far retrocedere il livello culturale della nostra Nazione.

Preso atto della riduzione degli orari di storia dell’Arte nei licei e la sua scomparsa dagli istituti tecnici e professionali dovuti alla riforma Gelmini, ci appelliamo al Ministro della Pubblica Istruzione affinchè riveda questa decisione che ci lascia insoddisfatti e interdetti.

Non possiamo che manifestare il nostro disappunto in merito a punti della riforma che troviamo ideologicamente pericolosi, a partire dalla sua impostazione classista: La disciplina “Storia dell’arte” rimane, infatti, sostanzialmente nei licei, scuole che nella mente dei riformatori sono le destinatarie di un’umanità superiore, appunto di serie A. L’insegnamento della Storia dell’Arte sparisce infatti dal Professionale, rimanendo nel Tecnico, pur decurtata di ore, in un unico indirizzo, quello Turistico.

Siamo contrari al messaggio per cui le discipline tecniche hanno maggiore dignità rispetto a quelle umanistiche. Ci sembra del tutto ingiustificato che le ore di insegnamento di Storia dell’Arte diminuiscano al liceo artistico per evidenti ragioni di indirizzo di studi e, soprattutto, che al liceo classico, si adotti la scelta penalizzante di assegnare una sola ora settimanale alla disciplina.

Alcune considerazioni su Elisa Sighicelli e la critica italiana

Finalmente l’arte italiana riesce a varcare i confini del nostro stato, approdando nientemeno che nel dorato tempio dell’arte contemporanea, vale a dire New York City. Portabandiera della nostra creatività è Elisa Sighicelli che ha inoltre partecipato al  discusso Padiglione Italia alla scorsa Biennale Di Venezia. L’artista in questi giorni (fino al 27 febbraio) è in mostra alla Gagosian Gallery di Madison Avenue con un progetto dal titolo The Party Is Over che consta di due video e nove fotografie montate su light boxes. Tra le opere presentate figura anche il video Untitled (The Party is Over), per intenderci quello con i fuochi d’artificio che vanno al contrario.

Ora è da sottolineare il fatto che la mostra da Gagosian sta raccogliendo numerose critiche positive tanto che il celebre magazine d’arte The Brooklyn Rail ha persino dedicato un’ampia ed interessante intervista all’artista redatta dal noto critico John Yau. Tra le domande interessanti poste da John Yau ve n’è una che mi ha letteralmente colpito, Yau avvicina il lavoro sulla luce di Elisa Sighicelli alle ricerche del filmaker sperimentale Stan Brakhage, noto tra l’altro per aver introdotto il concetto di film without a camera (film girati senza cinepresa). Brakhage ha infatti realizzato numerosi films dipingendo la pellicola a mano o graffiato direttamente l’emulsione (il confronto di Yau si riferisce nello specifico al video Mothlight dove Brakhage ha applicato ali di insetti sulla pellicola).

Artefiera Bologna 2010, il meglio visto da GlobArtMag

Michael Johansson

E domenica finalmente la neve è caduta su Bologna, silenziosa e padrona del mondo ha coperto i soliti chiacchiericci su chi ha venduto e chi no, sulla crisi economica, sui vip e sui presunti tali. Già perchè Artefiera ancora una volta ha ritrovato se stessa riconfermandosi come  grande evento che attira ogni anno un sempre più grande bacino di pubblico riuscendo a catalizzare l’intera attenzione della scena artistica italiana. La crisi ha forse spinto i dealers ad una più consona prudenza, ad un porsi dietro i sacchi di sabbia ma con le armi ben affilate. Di sperimentazioni e di cose molto più pacate se ne son viste, in un preciso bilanciamento che non ha mai superato la misura ed ha contribuito ad acuire il successo dell’evento. Vorrei qui di seguito elencare in ordine sparso le offerte gallerie nazionali che più hanno colpito la mia immaginazione, scusandomi se qualcuno è rimasto fuori da questa personalissima lista che non ha il piglio della critica ragionata ma si riallaccia alla libertà propria del pensiero creativo.

Ben pesato e ben pensato lo spazio della Galleria Continua, Loris Cecchini su tutti ma di ottime proposte, da Michelangelo Pistoletto, Hans Op de Beeck e Shilpa Gupta, la galleria di San Gimignano ne ha sfoggiate parecchie. Monumentale sino a sfiorare la bellezza di una mostra museale lo spazio di Lorcan O’Neill di Roma che con l’installazione di Richard Long ha ampiamente rimborsato a tutti il prezzo del biglietto, sugli scudi anche Pietro Ruffo e la prezzemolina Tracey Emin.

Polaroids, un libro per Dash Snow tra arte e vita

Della morte del compianto Dash Snow ne abbiamo parlato ampiamente negli scorsi mesi estivi fiino a informarvi sulla sua mostra-camera ardente alla Deitch Projects di New York. Oggi però vogliamo tornar a parlare di questo giovane artista in concomitanza con l’uscita di un libro postumo comprendente una larga parte della sua celebre collezione di Polaroid. Il libro in questione si intitola semplicemente Dash Snow: Polaroids ed ad un’attenta scorsa ci ha suggerito alcune riflessioni.

E’ difficile approciarsi obiettivamente al libro, carico com’è di emozioni e ricordi di una vita troppo breve. Ma chi era veramente Dash Snow? Forse un artista outsider e fuorilegge, il Baudelaire di Downtown (come lo ha definito un critico americano) o forse un ragazzo complicato ma non talentuoso, proveniente da una famiglia ricca. Certo è che Snow è cresciuto tra opere di Rauschemberg e Twombly, sua nonna, Cristophe de Menil è una nobildonna parigina che ha ammassato una delle più grandi collezioni d’arte moderna di tutti gli Stati Uniti.

Burj Khalifa Tower, il declino dell’architettura contemporanea

 La nuova meraviglia (se così possiamo definirla) dell’architettura è la Burj Khalifa Tower di Dubai. Inaugurato pochi giorni fa l’edificio è detentore del primato di costruzione più alta del mondo con i suoi 818 metri di altezza per 160 piani in totale. 12.000 operai hanno lavorato al giorno e notte al faraonico progetto che è stato completato in pochissimo tempo. D’altronde nel campo dell’architettura, come nella vita del resto, il tempo è tutto ma la tempistica della Burj Khaifa non poteva essere peggio di così.

L’edificio giunge a noi in 21esimo secolo impoverito dalla crisi economica dove il primato di edificio più alto del mondo è divenuto un noioso cliché che infastidisce per la sua insulsa opulenza oltre che risultare offensivo se messo in relazione con povertà che ci circonda. Di questo negli Emirati Arabi se ne sono ben resi conto visto che pochi giorni prima della fine dei lavori Dubai ha dovuto mettere i suoi creditori in attesa, segno evidente che gli eccessi della nazione sono giunti al capolinea. Il sistema che ha prodotto la Burj Khalifa sta ormai cadendo in pezzi e questo dovrebbe far riflettere le frotte di Archistar sempre pronte a realizzare edifici stravaganti e sfarzosi che oramai non hanno più senso all’interno di tessuti urbani sempre più poveri e sconnessi.

Correva l’anno 2009, il peggio dell’arte contemporanea secondo Globartmag

Giunti alla fine di questo lungo ed interessante 2009 è ormai tempo di bilanci e come si sa ogni testata che si rispetti stila la sua personale classifica del meglio visto nei mesi precedenti. Noi di Globartmag solitamente vi offriamo solo il meglio ed è per questo che stavolta abbiamo deciso di stilare una ricca top ten con il peggio del minestrone artistico nazionale, cose che non avremmo mai voluto vedere ma che è possibile vedere solo (per fortuna) in Italia, quindi allacciate le cinture e preparatevi a tutto:

1 Il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2009
L’horror vacui colpisce il duo curatoriale formato da Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli noti ormai come B&B. Ci si aggrappa ai fasti del Futurismo(?) e si riempie un padiglione-feijoada di opere ammassate, manco fosse una fiera d’arte. Tra presenze pittoriche imbarazzanti ed installazioni non meglio identificate il dramma si compie mentre la critica cala la scure. Quei pochi artisti che riescono a salvarsi galleggiano come isole perse in un dramma da feuilletton del  secolo scorso. Intanto al vernissage piove e tutti entrano in sala per ripararsi con sommo piacere degli organizzatori che sbandierano un boom di presenze mai visto. Contenti loro, depressi noi.

2 Quer pasticciaccio brutto del Premio Cairo 2009
Vince Marzia Migliora ma durante la premiazione il gallerista di Changing Role, Guido Cabib fa giustamente notare che l’opera premiata non è inedita, cosa che il regolamento impone. Segue la protesta su internet (viene persino istituito un gruppo su Facebook intitolato Il premio Cairo 2009 va annullato) e su varie testate che chiedono il ritiro dell’artista. Alla fine dopo un lungo periodo di imbarazzo la giuria del premio decide di squalificare Marzia Migliora ed assegnare il primo posto a Pietro Ruffo. La vicenda si chiude con una dichiarazione di Marzia Migliora che si ritiene vittima di tutta la faccenda. Cui Prodest?

3 Le nomine innominate del Castello Di Rivoli
Il balletto per la nomina del direttore della prestigiosa istituzione è il vero giallo di fine 2009, un delitto irrisolto con una trama alquanto intricata: il presidente Giovanni Minoli annuncia la prima sorpresa, i direttori sono due Andrea Bellini e Jens Hoffmann, poi quest’ultimo si defila inaspettatamente e senza un vero perché, il cda che prima l’aveva scelto presentandolo come uomo di fiducia lo accusa di non esser degno di fiducia. Al suo posto compare  Beatrice Merz, presidente della fondazione dedicata al celebre padre. Come diceva quella canzone di De Gregori? E non c’è niente da capire.

4 Alva Noto/Carsten Nicolai a Napoli
Proprio in zona Cesarini arrivano il pacco, il doppio pacco ed il contropaccotto. Nicolai viene ingaggiato per creare un’installazione a Piazza Del Plebiscito, dopo neanche tre giorni di “mostra” e 500mila euro spesi per l’intera operazione (tra l’altro molto bella) il curatore Eduardo Cicelyn rimuove il tutto per motivi di sicurezza.

Le bugie dell’arte contemporanea

Parlando di presenza fisica e culturale dell’arte contemporanea all’interno della nostra società va detto che non v’è nulla di che lamentarsi. Di musei e fondazioni è piena l’Italia, gallerie ne abbiamo a sazietà mentre la Biennale di Venezia resta sempre una delle manifestazioni più ambite e prestigiose di tutto il globo terracqueo. Se si sorpassano i nostri confini la situazione appare ancor più rosea, non è mistero infatti che all’estero esista una nutrita serie di luoghi, eventi ed attività dedicati all’arte contemporanea in netta crescita esponenziale. Ora immaginate quanti artisti sono chiamati ad esporre in questo vasto mare di eventi creativi, il numero è decisamente alto. Ed il bello è che molti di questi artisti sono vere e proprie star, ad esempio dalla generazione Young British Artists in poi, molti artisti inglesi sono osannati da mercato e critica.

Ci sono poi i mostri sacri statunitensi come Bruce Nauman, Bill Viola e compagnia cantante senza tralasciare i nuovi beniamini tipo Paper rad, Kembra Pfahler e Terence Koh che ultimamente hanno furoreggiato al Macro di Roma in occasione della mostra New York Minute. Ovviamente anche Francia, Spagna e Germania hanno il loro cospicuo numero di blasonati protagonisti della scena contemporanea mentre l’Italia chiude il conto con i soliti Francesco Vezzoli, Maurizio Cattelan ed una sparuta manciata di altri nomi.