Il futuro dell’arte è il concettuale? vedremo

Nel 1965 Joseph Kosuth realizzò l’opera Una e tre sedie che comprendeva una vera sedia, una sua riproduzione fotografica ed un pannello su cui era stampata la definizione della parola sedia. Con tale azione l’artista voleva far riflettere lo spettatore  sulla relazione tra immagine e parola, in termini logici e semiotici. Prima di Kosuth, Marcel Duchamp con la sua celebre opera Fontana del 1917 aveva già gettato le basi per il futuro sviluppo dell’arte concettuale.

Chissà però se Duchamp prima e Kosuth poi si saranno mai fermati a pensare all’enorme influenza della loro creatività nel mondo dell’arte strettamente contemporanea. L’escalation dell’arte concettuale infatti sembra divenuta inarrestabile, è oramai cosa consona recarsi ad una mostra in galleria, ad una fiera o ad una biennale d’arte e trovarci dentro un enorme quantitativo di opere costituite da oggetti assemblati a caso e installazioni ermetiche ed alquanto pretestuose. L’escalation del concettuale ha però perso per strada la spinta provocatoria e rivoluzionaria degli inizi oltre che una certa dose di filosofia dettata da una ricchezza culturale ed in certi casi spirituale.

La pittura ha ancora un senso

Le possibilità espressive e creative delle arti visive hanno subito una rapida espansione durante il corso del ventesimo secolo, Marcel Duchamp ha inventato il ready made e successivamente nel corso degli anni sessanta e settanta il proliferare di nuove tecniche come l’installazione, la performance, la land art, la body art, la video arte e la fotografia (non ultima quella digitale) sembravano aver dichiarato a morte la pittura.

Eppure negli scorsi anni la pittura ha incominciato un lento ma inesorabile cammino di ritorno riguadagnando prestigio tra collezionisti ed istituzioni e riconfermandosi regina di aste e compravendite di mercato. Ne aveva avuto il sentore il Centre Pompidou di Parigi nel 2002, presentando la mostra Cher Peintre, Lieber Maler, Dear Painter e profetizzando il ritorno ad una certa forma di pittura figurativa. Successivamente tra il 2004 ed il 2005 Charles Saatchi presentò a Londra una serie di tre mostre intitolate The Triumph of Painting.

Mamma posso comprarmi la mostra?

Globartmag è sempre alla ricerca di notizie con opportunità espositive dedicate ai giovani artisti alle prime esperienze, sin dai nostri primi articoli abbiamo selezionato per voi concorsi, festival e quanto altro ritenevamo più consono alle vostre esigenze ed affidabile sul piano della serietà d’intenti.

A questo punto molti lettori hanno scritto in redazione chiedendoci di stilare una lista di gallerie disposte ad esporre opere di artisti alla loro prima mostra, portando esempi di numerosi spazi espositivi nazionali ed internazionali che organizzano eventi in cambio di un contributo in denaro. In merito alla lista si potrebbe senza ombra di dubbio affermare che di gallerie disposte a promuovere arte emergente ve ne sono a centinaia. Ovviamente bisogna cercare, muoversi, presentarsi e soprattutto presentare in maniera professionale qualcosa di veramente interessante, inutile lamentarsi di ricevere troppi “le faremo sapere” o  “abbiamo la programmazione piena fino al prossimo anno” se si creano opere scolastiche, prive del benché minimo carattere estetico o sperimentale.

Che fine ha fatto il design italiano?

La Brionvega ha rilanciato sul mercato due storici prodotti degli anni ’60, si tratta del televisore Algol e della radio Cubo, due capolavori di design creati dal nostro Marco Zanuso in tandem con Richard Sapper. Dal canto suo anche la Fiat ha rilanciato la gloriosa 500 rielaborando le linee create nel 1957 da Dante Giacosa. Che dire poi delle meraviglie di design create negli anni ’60 da Cesare “Joe” Colombo, inventore di meravigliosi complementi d’arredo le cui linee effervescenti riecheggiano ancora dalle odierne produzioni industriali fin dentro le nostre case.

Ed ancora chi non ricorda la storica macchina per scrivere Olivetti Lettera 22, capolavoro di tecnica e stile creato nel 1950 da Marcello Nizzoli e strumento inseparabile di scrittori e giornalisti come Cesare Marchi, Enzo Biagi e Indro Montanelli. Infine come dimenticare maestri del calibro di Bruno Munari, Gae Aulenti, Achille Castiglioni, Enzo Mari e Gio Ponti, veri e propri pionieri che hanno rivoluzionato il modo di pensare e vivere gli oggetti che circondano la nostra vita.

Lo spettacolo dell’arte e l’arte dello spettacolo

 Le poco confortanti notizie circa i reality show dell’arte contemporanea ci avevano già messo in guardia sulla preoccupante atrofia del sistema dell’arte contemporanea internazionale. Per muovere le acque ed aggiungere un poco di energia galleristi ed istituzioni stanno vagliando ogni possibile ipotesi, sconfinando paurosamente verso le brulle e sconnesse terre dello spettacolo.

D’altronde il caro vecchio Guy Debord ci aveva già messo in guardia sulla deriva della società e dell’arte verso i lidi della mercificazione. Oggi volenti o nolenti ci troviamo di fronte ad un’arte contemporanea tesa al bisogno del cambiamento e della novità che realizza in termini l’espressione pura del cambiamento impossibile, un’arte che pur non riuscendoci deve essere necessariamente d’avanguardia mentre la sua vera avanguardia è la sua scomparsa. Così in Italia si tramutano i musei in cocktail bar ed in discoteche dove le opere svolgono il loro rassicurante ruolo d’arredo a corollario di una massa di parvenu danzerecci amanti del radical chic pensiero. Ed ancora si organizzano e si chiedono vernissage collettivi in modo da fare quadrato attorno ad un evento, come se l’evento stesso sia il fulcro della creatività artistica.

La noia dell’arte contemporanea è un fenomeno globale

 Forse stavate pensando anche voi la stessa cosa ma non avevate il coraggio di dirla oppure eravate troppo annoiati per pensarla: il palinsesto delle mostre di arte contemporanea offerto da gallerie e musei d’Italia è decisamente ad un punto morto. Già, è decisamente arduo trovar qualcosa di pur minimamente interessante tra le nuove proposte dell’arte, molti artisti sono ancora inceppati sull’informale altri caricano i loro moschetti con le polveri bagnate dell’arte povera, del concettuale e dell’iperrealismo. I più si perdono in un vagheggio pomposo ed inconcludente quanto svuotato di ogni significato che scimmiotta il mito americano del pop o si pone in bilico tra un Marcel Duchamp senza gabinetto ed un Joseph Beuys senza feltro e grasso.

Yoko Ono, antipatica regina dell’arte

Yoko Ono, Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia 2009, artista eclettica e sfuggente che in questi ultimi anni è stata consacrata regina dell’arte contemporanea. La moglie di John Lennon non è mai stata tanto amata come ora, tutti vogliono intervistarla e tutti sono pronti ad applaudirla per la sua brillante e longeva carriera artistica.

Eppure la storia di Yoko Ono con il grande pubblico non è stata sempre rose e fiorì. L’artista è stata negli anni passati letteralmente odiata da milioni di fans dei leggendari Beatles che l’hanno più volte accusata di essere stata l’unica causa della rottura tra i quattro ragazzi di Liverpool. Basta fare un rapido giro su youtube e guardare i commenti zeppi di offese posti sotto ai video che raffigurano la coppia Ono-Lennon. Forse il mondo non è mai riuscito a digerire il quinto membro dei Beatles, che conobbe Lennon nel 1966 quando la sua carriera artistica era in netta ascesa. Ed al momento dell’unione con Lennon nel 1968, Yoko Ono era già una donna determinata in un mondo di uomini, una musa silenziosa dall’estrema carica creativa che l’aveva portata ad unirsi ai primi membri del movimento Fluxus assieme a Joseph Beuys, Dick Higgins, Nam June Paik, Wolf Vostell e La Monte Young. 

Moba, il museo dell’arte brutta

La lista delle istituzioni museali internazionali dedicate all’arte contemporanea è decisamente lunga, si potrebbe dire infinita. Anche in Italia i musei d’arte contemporanea spuntano come funghi e non vi è dubbio che il successo delle grandi manifestazioni internazionali altro non fanno che incoronare le arti visive della nostra epoca come le più seguite di sempre.

A questo successo di critica e botteghino molte volte fa da contrappunto la disarmante bruttezza sia in termini formali che filosofici di alcune opere che devono per forza trovare un salvifico palliativo nelle parole di curatori e critici i quali servono ad indorare la pillola al pubblico pagante, glorificando il lavoro dell’artista di turno. Insomma non si tratta di un fenomeno tutto italiano, dell’arte brutta n’è pieno il mondo. Musei e gallerie propongono a volte progetti talmente flebili e volgari che la loro insulsa pretestuosità sembra essere l’unico guizzo di sperimentalismo e la sola pregevolezza estetica.  Di questo devono esserne assolutamente certi alcuni signori di Boston che hanno deciso di fondare nell’autunno del 1993 il Moba, Museum of Bad art, l’unica istituzione museale privata al mondo ad esporre arte decisamente e volutamente brutta.

ArtPrize, il superenalotto dell’arte

 Gli americani si sa fanno le cose in grande, il problema e che queste megalomanie hanno contagiato anche il mondo dell’arte che rischia di diventare un grande reality svuotato di ogni sorta di contenuto se non l’estrema voglia di spettacolarizzazione e vetrinizzazione sociale.

Stiamo parlando dell’ormai arcinoto ArtPrize, una competizione artistica creata dal ricco e giovane ereditiero Rick DeVos radicalmente aperta a chiunque con il montepremi più alto della storia. Al vincitore del contest andranno infatti la bellezza di 250.000 dollari mentre il secondo classificato riceverà la cifra di tutto riguardo di 100.000 dollari. Altri premi in denaro sono disponibili per il terzo classificato a cui andranno 50.000 dollari mentre dal quarto al decimo posto la posta in palio è di 7.000 dollari.

Jonathan Jones e l’importanza della critica

Girovagando per la rete abbiamo trovato un’altra piccola perla del nostro critico preferito, Jonathan Jones che come abbiamo più volte detto cura un interessante blog sul The Guardian. Parlando del sistema dell’arte odierno, Jones si interroga sul contributo della critica come sviluppo della cultura stessa. Le sue parole si riallacciano alla nostra già nota crociata contro “il tutto è bello tutto ci piace” della non critica contemporanea che sta letteralmente creando un livellamento culturale ed estetico che rischia di minare l’essenza dello sviluppo artistico. Citiamo letteralmente le parole di Jonathan Jones:

“Penso che questo sia il momento giusto per tornare a parlare di critica, perché se ne sente il bisogno effettivo. Lo sfrenato volume di arte in una cultura ossessionata dalle gallerie è un mare talmente vasto e confuso che solamente una giusta critica può fare la differenza. Non possiamo continuare ad affermare che tutto ha lo stesso valore, è il momento di rialzarsi e scindere ciò che è buono da ciò che non lo è.

L’arte del ripetersi

Da tempo Globartmag riflette su ciò che avviene all’interno della scena del contemporaneo del Belpaese. Al di là di inutili polemiche ciò che salta miseramente all’occhio è che l’arte italiana non ha più la forza e la voglia di rischiare, di forzare le barricate tentando una disperata ma in certi casi salvifica corsa fuori dalla trincea .

Da tempo immemore oramai le nuove generazioni di artisti prediligono il concetto di riconoscibilità estetica dell’opera in funzione di un sistema dell’arte nostrano che diviene così pericolosamente simile a qualsiasi altra manifestazione commerciale industriale.  Il prodotto artistico deve essere rigorosamente associato al nome dell’artista e questi deve per forza di cose apparire in prima persona su riviste di settore e quanto altro rivendicando la paternità della propria opera. In virtù di ciò l’appassionato, il collezionista ed il curatore saranno ben consci sul chi ha fatto cosa e sapranno ben riconoscere l’arte di un determinato artista anche al primo fuggevole sguardo.

In sostanza l’artista soccorre il fruitore d’arte contemporanea tranquillizzandolo con opere racchiuse in un unico e grande brand alla stregua di qualsiasi altro prodotto impilato sugli scaffali del supermercato. Il vero problema è che tutto questo ripetersi di soggetti e di concetti in salse e colori diversi all’insegna dello slogan “squadra che vince non si cambia” qiu tradotto in “opera che vende non si cambia” rischia di creare un controsenso ideologico e temporale in cui il lavoro di un determinato artista perde totalmente il proprio significato iniziale, se ne aveva uno.

Il bello della crisi

Di crisi ne abbiamo parlato molto, ne hanno parlato in tanti. Giornali, webmagazines e blogs di tutto il mondo hanno lasciato scorrere fiumi di nero inchiostro sopra questo periodo di recessione dell’arte, gettando appassionati e addetti del settore nel più profondo sconforto. Eppure anche in questo tetro frammento di tempo in cui le gallerie vendono meno, le istituzioni museali tagliano il personale e Sotheby’s non riesce a pagare i suoi movimentatori, ci deve esser per forza qualche nota positiva. Noi di Globartmag abbiamo provato ad analizzare i possibili giovamenti della crisi.

Per gli artisti e le gallerie: con meno vendite facili in giro si è costretti a focalizzare la propria ricerca sulla qualità. Ciò significa che la crisi attuerà una reale selezione naturale in cui il superfluo lascerà il posto al necessario elevando in tal senso i contenuti estetici, formali e filosofici di ogni opera d’arte e di ogni evento. In seconda battuta la chiusura di locali commerciali ed il successivo calo del prezzo degli immobili rappresenterà un ottimo investimento per gli artisti che sono ancora in cerca di uno studio a buon mercato (basti pensare a Soho, New York nel 1970) .

Senza critica la situazione è critica

Benvenuti nell’universo uniformato dell’arte contemporanea, già perché da quanto si evince dalle notizie presenti sui maggiori magazines d’arte italiani, in questi ultimi anni stiamo assistendo al trionfo del bello e della creatività nazionale. Ed allora perché l’arte contemporanea del nostro paese stenta ad imporsi sulla scena internazionale? Dove mai saranno finiti gli eventi male organizzati e gli artisti della domenica?

La quasi totale mancanza di una piattaforma critica coerente è un male diffuso in Italia, un problema annoso che rischia di appiattire l’arte contemporanea su di un unico livello estetico dove tutto è considerato di buona qualità ed ogni artista compie una sua personale ricerca su qualcosa di interessante e sperimentale. Il risultato di questa inutile piaggeria e che gli artisti realmente meritevoli di attenzione così come gli eventi ben riusciti non riescono ad emergere, uniformandosi al resto e pregiudicando un futuro sviluppo sia creativo che tecnico di coloro che potrebbero rappresentare un cambiamento nel vasto mare dell’arte contemporanea nostrana.

Noi siamo i “federali” dell’arte

Il mondo dell’arte contemporanea del nostro belpaese vorrebbe cambiare, il guaio è che ancora non ha capito come fare. Le fiere cambiano nome, si trasformano, tentano una formula e dopo un fallimento ne tentano un’altra. I galleristi abbandonati dal sistema cercano nuove forme di comunicazione. Anche i curatori tentano di riprogrammarsi. Già, parliamo degli addetti del settore, questo oggetto ben identificato che ronza attorno all’artesistema.